di Manlio Dinucci
da il manifesto, 16 gennaio 2015
Nelle prime ore del 17 gennaio 1991, inizia nel Golfo
Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apre
la fase storica che stiamo vivendo. Questa guerra viene lanciata nel momento in
cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stanno per dissolversi il Patto di
Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Ciò crea, nella regione europea e
centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. E, su scala
mondiale, scompare la superpotenza in grado di fronteggiare quella statunitense.
«Il presidente Bush coglie questo cambiamento storico», racconta Colin Powell.
Washington traccia subito «una nuova strategia della sicurezza nazionale e una
strategia militare per sostenerla». L’attacco iracheno al Kuwait, ordinato da
Saddam Hussein nell’agosto 1990, «fa sì che gli Stati uniti possano mettere in
pratica la nuova strategia esattamente nel momento in cui cominciano a
pubblicizzarla».
Il Saddam Hussein, che diventa «nemico numero uno», è lo
stesso che gli Stati uniti hanno sostenuto negli anni Ottanta nella guerra
contro l’Iran di Khomeini, allora «nemico numero uno» per gli interessi Usa in
Medioriente. Ma quando nel 1988 termina la guerra con l’Iran, gli Usa temono
che l’Iraq, grazie anche all’assistenza sovietica, acquisti un ruolo dominante
nella regione.
Ricorrono quindi alla tradizionale politica del «divide et
impera». Sotto regia di Washington, cambia anche l’atteggiamento del Kuwait:
esso esige l’immediato rimborso del debito contratto dall’Iraq e, sfruttando il
giacimento di Rumaila che si estende sotto ambedue i territori, porta la
propria produzione petrolifera oltre la quota stabilita dall’Opec. Danneggia
così l’Iraq, uscito dalla guerra con un debito estero di oltre 70 miliardi di
dollari, 40 dei quali dovuti a Kuwait e Arabia Saudita. A questo punto Saddam
Hussein pensa di uscire dall’impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano
che, in base ai confini tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy
Cox, sbarra l’accesso dell’Iraq al Golfo.
Washington lascia credere a Baghdad di voler restare fuori
dal contenzioso. Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti del Pentagono mostrano
che l’invasione è ormai imminente, l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glaspie
— come spiegò poi nella sua intervista a Jeune Afrique -, assicura Saddam
Hussein che gli Stati uniti desiderano avere le migliori relazioni con l’Iraq e
non intendono interferire nei conflitti inter-arabi. Saddam Hussein cade nella
trappola: una settimana dopo, il 1° agosto 1990, le forze irachene invadono il
Kuwait.
A questo punto Washington, formata una coalizione
internazionale, invia nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per
cento statunitensi, agli ordini del generale Schwarzkopf. Per 43 giorni,
l’aviazione Usa e alleata effettua, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite,
sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano oltre 10
milioni di submunizioni. Partecipano ai bombardamenti, insieme a quelle
statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole,
portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le
truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciano
l’offensiva terrestre. Essa termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco
temporaneo» proclamato dal presidente Bush. Alla guerra segue l’embargo, che
provoca nella popolazione irachena più vittime della guerra: oltre un milione,
tra cui circa la metà bambini.
Subito dopo la guerra del Golfo, Washington lancia ad
avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati uniti rimangono il
solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione –
politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto
alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati
Uniti, agosto 1991).
La guerra del Golfo è la prima guerra a cui partecipa sotto
comando Usa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11 della Costituzione.
La Nato, pur non partecipando ufficialmente alla guerra, mette a disposizione
sue forze e strutture per le operazioni militari. Pochi mesi dopo, nel novembre
1991, il Consiglio Atlantico vara, sulla scia della nuova strategia Usa, il
«nuovo concetto strategico dell’Alleanza». Nello stesso anno in Italia viene
varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo la Costituzione, indica
quale missione delle forze armate «la tutela degli interessi nazionali ovunque
sia necessario».
Nasce così con la guerra del Golfo la strategia che guida le
successive guerre sotto comando Usa, presentate come «operazioni umanitarie di
peacekeeping»: Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria
dal 2013, accompagnate nello stesso quadro strategico dalle guerre di Israele
contro il Libano e Gaza, della Turchia contro i curdi del Pkk, dell’Arabia
Saudita contro lo Yemen, dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi
funzionali alla strategia Usa/Nato, dall’uso di forze neonaziste per il colpo
di stato in Ucraina funzionale alla nuova guerra fredda contro la Russia.
Profetiche, ma in senso tragico, le parole del presidente Bush nell’agosto
1991: «La crisi del Golfo passerà alla storia come il crogiolo del nuovo ordine
mondiale».
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