sabato 27 gennaio 2018

L’associazione Vittime della Nato in Libia lotta contro l’impunità dei potenti


di Marinella Correggia

27 GENNAIO 2018


Dalla guerra in Iraq nel 1991 a oggi, nessun tribunale internazionale ha mai processato e giudicato i vincitori delle guerre di aggressione condotte dall’Occidente e dagli alleati del Golfo.  E dire che la guerra di aggressione è bandita in modo assoluto dalla carta delle nazioni unite ed è considerata il «crimine internazionale supremo» sin dall’epoca del tribunale di Norimberga (che però giudicò solo i vinti).

Alcune volte gli Stati presi di mira hanno provato a reagire ricorrendo a istanze internazionali (si pensi alla Jugoslavia durante i bombardamenti Nato del 1999); altre volte erano i cittadini danneggiati a provare le strade dei tribunali internazionali, sul lato penale e civile. Il primo non ha mai sortito effetti; per il secondo, alle vittime civili – «effetti collaterali» – afghane, irachene, pakistane sono stati elargiti risibili risarcimenti a cura dei responsabili, si vedano gli Usa con gli abitanti dei villaggi sterminati dai droni. Troppo poco, decisamente.

Si sta muovendo con coraggio contro l’impunità  Khaled el Hamedi, cittadino libico,  fondatore dell’associazione Vittime della Nato. Un bombardamento dell’operazione Unified Protector sterminò la sua famiglia il 20 giugno 2011 a Sorman. Dalle macerie furono estratti i corpi maciullati della moglie Safae Ahmed Azawi, incinta, dei suoi due figli piccoli Khaled e Alkhweldi, della nipote Salam, della zia Najia, del cugino Mohamed; uccisi anche i bambini dei suoi vicini di casa e due lavoratori. Abbiamo rivolto alcune domande al legale di Khaled, Jan Fermon, che sta preparando una conferenza stampa a Bruxelles, il 29 gennaio. 


Avvocato Fermon, il 23 novembre 2017 la Corte d’appello di Bruxelles (Belgio, sede del Patto atlantico) ha risposto negativamente al ricorso del suo assistito Khaled el Hamidi; l’immunità della Nato è stata confermata…

E’ stata persa l’occasione di un passo avanti storico nell’applicazione della legislazione internazionale sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Una grande ingiustizia verso tante vittime. Khaled el Hamidi (che ora vive in esilio, ndr) è intenzionato ad andare avanti finché l’impunità non avrà fine. Il fatto che la sede della Nato sia qui, ha aperto la strada alla possibilità di un processo civile.

Come mai la Nato gode dell’immunità, e dunque dell’impunità?

La Nato è un organismo interstatale e multilaterale; con il trattato di Ottawa del 1951, i paesi fondatori decisero per l’immunità dalla giurisdizione cioè l’impossibilità di processare (cosa diversa dall’immunità di esecuzione cioè l’impossibilità di applicare la punizione). E’ grave, trattandosi di un’organizzazione che può dunque impunemente decidere della vita e della morte delle persone in giro per il mondo. Non è certo un incentivo, per la Nato e per altri, a rispettare il diritto internazionale…Può sfociare nell’impunità per crimini di guerra.

Paradossale. Non ci sono limiti a questa immunità?

Sì, ci sarebbero, e questa è la base della nostra azione legale. Infatti l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti umani e altri strumenti internazionali prevedono che ogni cittadino abbia il diritto di accedere a un tribunale. E, per la Convenzione di Vienna, gli Stati devono rispettare i trattati che hanno firmato. Il diritto di accesso, tuttavia, non è assoluto e può subire limitazioni, appunto di fronte all’immunità delle organizzazioni internazionali, che hanno fini da perseguire. Ma c’è una giurisprudenza, anche da parte della Corte di cassazione belga, secondo la quale la limitazione nell’accesso ai giudici non è accettabile quando l’organizzazione internazionale che dovrebbe essere messa in stato di accusa non ha una sorta di tribunale interno accessibile da parte dei cittadini che hanno subito danni dal suo operato. La Nato è priva di questo meccanismo rispetto alle sue azioni in Libia.

E dunque?

Intanto: la Nato ha rifiutato di comparire in giudizio (loro sostengono di limitarsi a coordinare le azioni belliche degli Stati membri, lo Stato belga l’ha rappresentata (dopotutto se si tratta di risarcire danni, spetterà poi agli Stati membri). Un primo scoglio era che Khaled non potesse invocare l’articolo 6 e dunque il diritto di accesso a un giudice perché non è cittadino europeo e il danno era avvenuto fuori dall’Europa. Ma in due sentenze, la Corte europea dei diritti umani aveva stabilito che si potesse invocare l’articolo 6 perché il paese dove la causa era cominciata lo permetteva. Nel nostro caso, però, la Corte d’appello ha deciso così: «Avete il diritto di accedere alla Corte, ma la limitazione al vostro diritto, dovuta all’immunità della Nato, rimane accettabile, proporzionata, visti gli obiettivi che l’organizzazione internazionale deve realizzare.» La Corte d’appello si è riferita a una Corte olandese che aveva sancito l’immunità per i caschi blu olandesi dell’Onu, nella vicenda di Srebrenica.

Ma l’Onu e la Nato, lei dice, non possono essere messe sullo stesso piano.

La prima è un’organizzazione che almeno in linea di principio non è di parte e riconosce la sovranità e l’eguaglianza di tutte le nazioni; ha per obiettivo l’applicazione del proprio Statuto, che è la base del diritto pubblico internazionale contemporaneo. Inoltre l’Onu dovrebbe avere il monopolio dell’uso della forza, oltretutto solo con il fine di ristabilire la pace. La Nato è praticamente illegale rispetto alla Carta dell’Onu che parla di organizzazioni regionali ma non di patti militari; è un club militare di un gruppo limitato di paesi e ha come obiettivo l’uso della forza.

Non potevate impugnare l’illegalità della guerra della Nato, che andò ben oltre il mandato della risoluzione del Consiglio di sicurezza 1973, operando un regime change e violando addirittura il mandato relativo alla protezione dei civili?

Dal punto di vista politico, è verissimo. La 1973 fu strumentalizzata. Però, questo genere di argomento renderebbe ancora più difficile le cose per un giudice belga. Ho preferito non usare l’argomento della legalità dei quella guerra perché nel caso della famiglia el Hamedi non ce n’era bisogno: prendere di mira un’abitazione civile è un crimine di guerra. La Commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Libia al tempo si disse insoddisfatta delle spiegazioni della Nato circa l’episodio…a volte hanno tirato in ballo un errore da parte degli informatori sul campo, altre volte hanno affermato che la casa era una centrale di comando, tutto evidentemente falso.

Quali le vostre prossime mosse? Provare in altri paesi?

Dobbiamo valutare se continuare in Belgio; la Corte di cassazione non può cambiare la decisione nel merito. Altri paesi? Si potrebbe solo conoscendo la nazionalità dell’aereo che ha colpito quel giorno. Il paese è corresponsabile delle azioni. Ma è impossibile saperlo, vista l’omertà in casa Nato.  Pensiamo anche alla Corte europea per i diritti umani.

E il Tribunale penale internazionale (Tpi) visto che si tratta di un crimine di guerra?

Quanto al Tpi, la risoluzione 1970 sulla Libia in effetti lo tirava in ballo …dal punto di vista letterale gli venivano affidati tutti i crimini compiuti in Libia; ma è molto chiaro che ci si riferiva solo a Gheddafi e alla sua ristretta cerchia. Inoltre per le vittime, far ricorso a quel tribunale, significa avere pochissimi diritti; il procuratore spesso non avvia nemmeno l’inchiesta; lo sanno tutti. Ci sono pressioni fortissime.

Ha assistito altre vittime delle guerre occidentali?

Ci ho provato nel 2003 durante l’occupazione dell’Iraq. Il Belgio aveva la giurisdizione universale (cioè estesa ad atti compiuti fuori dei propri confini) rispetto ai crimini di guerra. Difendevo un gruppo di cittadini iracheni contro il generale Tommy Franks e altri militari. Beh, furono impressionanti le minacce. Il Segretario Usa alla difesa Donald Rumsfeld chiese al Belgio di non accettare la mia denuncia; il paese fu minacciato di boicottaggio, di ritiro degli uffici della Nato (100mila posti di lavoro); e siccome il ministro degli esteri si era rivelato un po’ indipendente, fu imposto di estrometterlo dal governo successivo. Del resto, come non ricordare il cosiddetto «Hague Invasion Act» del 2002? Una legge che autorizza l’uso della forza per liberare i cittadini statunitensi o di un paese alleato che fossero detenuti dal Tribunale penale, con sede all’Aia. Ecco, dopo il 2003 è stata minacciata una sorta di «Brussels Invasion Act».

Khaled el Hamedi, che ora vive rifugiato all’estero, ha creato l’associazione Vittime della guerra della Nato in Libia. Quali gli obiettivi?

Vuole aprire una possibilità per gli altri; unire le forze. Intanto per stabilire la verità. Sarà anche utili aiutarli a raccogliere elementi di prova sull’operato della Nato. E la pressione giudiziaria, è anche quella che viene dalle vittime…

Ma l’impunità delle potenze egemoni, è proprio invincibile?

La lotta contro l’impunità, anche in un mondo multipolare, è prima di tutto una lotta di popolo. E’ più politica che giuridica, anche se poi va tradotta in principi giuridici che superino, appunto, l’impunità. E’ un po’ lo stesso nella giustizia nazionale, che non è neutra rispetto al censo, come sappiamo. Comunque sono i popoli a doversi battere per imporre una giustizia imparziale e seria.


Marinella Correggia



Le foto sono tratte da questo sito:

mercoledì 24 gennaio 2018

IL PAPA NON E’ MAO ZEDONG


di Livio Zanotti


Il Papa rientra dal Sudamerica nelle sue due stanze, bagno e cucina di Santa Marta mentre miliardari e grands commis della finanza mondiale si riuniscono all’annuale Forum di Davos, sulle Alpi. Nella loro agenda, il dossier “Creare un futuro condiviso in un mondo frammentato” e il report del Credit Suisse “Remunerare il lavoro, non il capitale” (sui nuovi ricchi in India, Russia e Cina). Già conoscono i dati che la nota Ong britannica OXFAM gli fa trovare sui tavoli: l’uno per cento della popolazione mondiale controlla il 99 per cento di tutte le ricchezze, un dato che nel ripetersi rischia di apparire uno slogan. Nel 2016, questo stesso uno per cento ha acquisito l’82 per cento dell’incremento netto di ricchezza prodotta.

Francesco torna dal viaggio nelle periferie umane, sociali e geografiche di Cile e Perù, di cui ha salutato le massime autorità -come ovviamente dovuto-; ma trattenendosi essenzialmente con gli “invisibili”: recluse di un carcere femminile con in braccio i loro neonati, le popolazioni indigene che rivendicano le terre dei propri avi dalla gelida steppa patagonica all’Amazzonia subtropicale minacciata da uno sfruttamento -questo sì-, selvaggio, folle sempre enormi e talvolta gigantesche come quella accorsa alla sua ultima messa nella base militare di Las Palmas, a Lima. Sempre ricordando che non esistono superman, siamo tutti “uomini perdonati”, e rivendicando i diritti di ciascuno. E’ retorica populista?

Il Papa in Sud America incontra gli indiosHa guardato dentro al Perù di nuovo spaccato: la liberazione dell’ex dittatore Alberto Fujimori, genocida e corrotto, ha riprecipitato la memoria del paese nelle perverse violenze degli anni Ottanta, le proteste contadine e degli studenti contro l’emarginazione, il terrorismo fanaticamente sanguinario di Sendero Luminoso, le repressioni indiscriminate dell’esercito, i traffici di armi e droga favoriti da Fujimori e dai suoi servizi segreti. Vittime, sempre indios e giovani e donne, i più indifesi. Non abbastanza protetti neppure dalla Chiesa, in cui nell’ultimo quarto di secolo ha avuto un ruolo protagonista l’Opus Dei. Francesco mantiene distanza dalla politica dei paesi di cui è ospite, come dev’essere e la stampa locale ha sottolineato. La scelta degli argomenti e degli interlocutori non è tuttavia significativa?

I sistemi produttivi della società globalizzata in cui viviamo offrono un flusso ininterrotto di comfort materiale a masse crescenti di cittadini-consumatori (più consumatori che cittadini, in quanto definiti dalla loro capacità d’acquisto più che dai loro diritti acquisiti in quanto membri della società). Però inesorabilmente mercificano i rapporti umani e spingono a un’uniformità di pensiero e di comportamenti che espone a rischi maggiori le istituzioni democratiche, la civiltà del pluralismo e della partecipazione. Valori che neppure tutto il pensiero liberale difende (vedi l’estremismo liberista). E nell’ambito religioso le confessioni evangeliche respingono dogmaticamente, per predicare una più che dubbiosa armonia iper-individualista. E’ un dagherrotipo ingiallito?

“Arauco ha un dolore che non può tacere, (son injusticias de siglos que todos ven aplicar…)”, ha detto Francesco ripetendo la celebre Violeta Parra, agli araucani che nel sud del Cile reclamano le terre anche alla stessa chiesa cattolica. “Qui sono avvenute gravi violazioni dei diritti umani ha ricordato durante la messa all’aeroporto di Maquehue, base dei golpisti di Pinochet. E rivolto ai disoccupati: “L’essere umano non è mai un’avanzo…” (dell’economia…) Non devono esistere i “non cittadini o le mezze cittadinanze”, è andato ripetendo con le parole più esplicite, più persuasive. Nessuna delle rassegnazioni cui storicamente la Chiesa ha fatto ricorso, poche metafore e del tutto trasparenti. Una semantica attualizzata alla divulgazione di massa.

Ha pronunciato anche altre due parole-chiave dell’attualità criminale: femminicidio, per la prima volta, condannandolo con orrore; e pedofilia, un tema preso di petto fin dal primo momento del papato e che nondimeno in Cile gli ha provocato uno scandalo senza precedenti. E’ accusato di ipocrisia (non nuova per un gesuita, ma qui dovremmo approfondire il senso in politica di termini come “doppiezza”, “machiavellismo”, etc.), per condannarla e al tempo stesso tenersi accanto un vescovo accusato insistentemente da anni di averla coperta se non praticata. E qui diventa necessario avventurarsi nel carattere dell’uomo Jorge Bergoglio. Un rischio tanto evidente quanto inevitabile, se si è alla ricerca di spiegazioni plausibili.

Il contesto generale è che in Cile (ma com’è noto non solo in Cile) la pedofilia nella chiesa cattolica ha fatto strage di coscienze. I fatti in questione sono che nel 2015 Bergoglio ha nominato vescovo un sacerdote assai discusso, che come numerosi altri era in cordiali e frequenti rapporti con un personaggio a dir poco compromettente. Un teologo preparatore di sacerdoti oggi quasi novantenne, vincolato a gruppi cospiratori del fascismo cileno fin da prima del governo di Salvador Allende, infine espulso (2011) a divinis dalla Chiesa per atti gravissimi e reiterati di pedofilia. Una vicenda che più s’approfondisce e peggio si presenta, da cui restare a distanza sarebbe stato quindi di una prudenza elementare.

Il gruppo di cattolici in contrasto con il Papa, polemizza con lui fin dal momento della nomina. E non si tratta solo di semplici fedeli. Ci sono autorevoli sacerdoti gesuiti, professionisti di prestigio, Josefina Canales, presidente della Federazione Studenti Universitari Cattolici, Marta Larraechea, consorte dell’ex presidente della Repubblica Eduardo Frey, a sua volta figlio di un capo di Stato, dunque erede di una delle famiglie più prestigiose della Democrazia Cristiana cilena, insieme agli Aylwin. Tutti cittadini che ho conosciuto personalmente insieme al collega Franco Catucci, degni del massimo rispetto e fedelissimi della Chiesa. Difficile disfarsene chiamandoli “zurdos” (mancini), un termine particolarmente odioso in quanto fatto proprio a suo tempo dal gergo dei terroristi della Triple A e dei militari golpisti argentini per indicare le persone da sequestrare e uccidere.

Ma Bergoglio è persona di temperamento. Ha detto di non essere mai stato di destra e di considerarsi “un po’ furbetto” (intervista a “Civiltà Cattolica”), mai di essere di sinistra. Il suo tono è assertivo ma in genere non imperioso, anche in Sudamerica ha condannato ogni “tendenza prometeica”. Tuttavia la sua pazienza è missionaria, la mitezza nei principi e la comprensione dell’altro una scelta innanzitutto intellettuale. Nega di essere autoritario, non rinuncia per questo alla sua autorità assoluta. Auspica una Chiesa compassionevole, però anche se volesse non potrebbe comunque cambiarne la natura monarchica. Non è un rivoluzionario ottocentesco e la sola idea di guardie rosse lo mette di malumore: al contrario di Mao, non ordinerebbe mai di bombardare il suo stesso Quartier Generale.

Abbas ha ragione. Perché Israele continua a dire che ha torto?


di Gideon Levy

Haaretz, 18 gennaio 2018


Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas saluta dopo il suo discorso del 25 settembre 2010 alla 65a sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York. 

Il coro giulivo strilla ancora contro Mahmoud Abbas. Basta vedere le reazioni al suo discorso per capire fino a che punto Israele sta parlando con una voce orribilmente uniforme, fino a che punto non c’è più destra e sinistra, non c’è vera discussione né pluralismo ideologico, ma solo un cieco, assordante latrato nazionalistico.

Da Nadav Eyal (“un discorso demenziale e spregevole”) a Ben Dror Yemini (“ideologia delirante”), hanno fatto tutti a gara per chi sparava di più contro Abbas. Nessuno ha affrontato veramente quello che ha detto. D’altronde, lui ha maledetto Donald Trump, campione di raffinata retorica, “possa la tua casa esser distrutta,” cosa ahimè sconvolgente per le sensibili orecchie degli Israeliani. Ha parlato di colonialismo, e gli auto-vittimizzati Israeliani hanno gridato: “anti-semitismo.” Nessuno ha detto cosa c’era di sbagliato nel suo discorso e cosa c’era di anti-semitico. Eccetto forse per quelle “navi olandesi che portarono qui gli Ebrei,” Abbas ha detto la verità. È una cosa difficile da digerire, e Israele ha scelto di strillare. Fa sempre così quando non sa cosa rispondere.

Abbas ha detto che l’accordo di Oslo è finito. Cosa ne rimane infatti, a una ventina di anni da quando l’accordo sullo status finale doveva essere firmato? Israele ha fatto tutto quello che poteva per sabotare l’accordo. Ogni soldato che invade di notte i territori dell’area A, ogni prigioniero che sta in prigione da prima di Oslo, lo sta in effetti violando.

L’attuale governo e i suoi sostenitori contestavano Oslo: perché ora si offendono se Abbas dice che è tutto finito? Abbas ha detto la verità.

“Non accetteremo più la sponsorizzazione americana,” ha detto Abbas. Ha altre scelte? Cosa dovrebbe fare, chinar la testa dopo i sonori schiaffi che ha ricevuto? Inginocchiarsi di fronte a un presidente che ignora l’occupazione?

Non diceva forse la verità quando protestava contro la demenziale affermazione di Trump che sono stati i Palestinesi a mandare a monte i negoziati? Una super-potenza che punisce l’occupato invece dell’occupante: questa è una cosa inspiegabile. Invece di smettere di finanziare e armare l’occupante, gli Stati Uniti tagliano i fondi all’organizzazione che assiste i rifugiati della parte occupata. È una follia. Abbas ha reagito con moderazione. Gli ambasciatori americani Nikki Haley e David Friedman sono di fatto amici dell’occupante e nemici della legge internazionale: come altrimenti definirli se non due tipi stravaganti?

Ma il colpo più scioccante è stato quando Abbas ha toccato i nervi più scoperti degli Israeliani e ha classificato il sionismo tra gli ingredienti del progetto coloniale. Aveva torto? Quando una potenza coloniale in declino promette un paese che non sta ancora governando a un popolo la cui stragrande maggioranza non vive in quel paese, mentre ignora il popolo che ci vive, cos’altro è se non colonialismo? Quando più della metà di quel paese viene promessa a meno di un decimo di chi ci abita, cos’altro è se non una terribile ingiustizia?

È duro sentirselo dire, ma è la verità. La dichiarazione Balfour non può essere letta altrimenti. E cosa c’è di più appropriato che chiedere ai Britannici di scusarsi e mettersi ora dalla parte dei Palestinesi, dopo tanti anni in cui sono stati sfrattati e spossessati, a cominciare da Balfour per finire ai giorni nostri?

La creazione di Israele ha servito all’occidente imperialista. Abbas ha ragione. Israele viene visto come l’ultimo baluardo contro gli Arabi selvaggi, così come il regime di apartheid del Sud Africa era visto dallo stesso occidente come l’ultimo baluardo contro i comunisti e i neri.

Poi c’è stato l’Olocausto e Israele e diventato un legittimo e giusto rifugio, ma anche questo è avvenuto a spese dei Palestinesi. Il mondo avrebbe dovuto compensarli liberandoli dall’occupazione del 1967 e dando loro eguali diritti, oppure un loro stato. È di questo che ha parlato Abbas.

Abbas non è certo uno statista perfetto. Non è un democratico. È impopolare, forse corrotto, certamente patetico nel suo insistere per la soluzione a due stati. Ma è lo statista palestinese più pacifista e più nonviolento che si possa immaginare. È per questo che è così pericoloso per Israele. È per questo che Benjamin Netanyahu ha festeggiato il suo discorso risoluto, riecheggiato dal coro nazionale. Israele vorrebbe che tutti fossero Yahya Sinwar [leader di Hamas, ndt]. Questo renderebbe ancor più giustificata l’occupazione

giovedì 18 gennaio 2018

Alan Hart, il giornalista che ha umiliato la lobby sionista

Fonte: http://www.alanhart.net/

di Stefano Zecchinelli 

18 gennaio 2018 

I giornali ‘’antimperialisti’’ non hanno ancora dato la notizia della morte di Alan Hart, dimostrando, per l’ennesima volta, il loro ruolo di falsa opposizione al sistema. Le liste elettorali si riempiono ed i giornali ‘’di partito’’ non possono compromettersi parlando di uno storico e giornalista che, con grande coraggio, ha dato filo da torcere alla lobby sionista ed allo Stato d’Israele. Alan Hart fu un vero difensore della causa palestinese, conobbe di persona Arafat e scrisse una storia dell’OLP, un ricercatore rigoroso che ha percorso, col suo coraggio, la storia dei conflitti mediorientali raccontandoci la brutalità del sionismo. Ci ha lasciati un vero combattente, antimperialista, anticonformista, fiero nemico d’ogni forma d’oppressione. Con la morte di Alan Hart siamo, tutti quanti, un po’ più poveri.

Il grande giornalista inglese con la trilogia, Sionismo, il vero nemico degli ebrei, non si limita a ricostruire la storia del nazionalismo ebraico, dalla nascita fino al governo di Obama, ma mette in risalto il ruolo delle lobby –  sionista, evangelica e pro-Israele – nel portare gli Stati capitalistici europei dalla parte di un piccolo Stato etnico e militarista. Il suicidio programmato delle borghesie occidentali. Come osservavo recensendo il primo volume, Il falso messia, il sionismo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha ‘’colonizzato’’ l’oligarchia statunitense. Alan Hart entra nel merito delle questione con la maestria dello storico:

‘’Minacce politiche ? Truman – nota Hart – sapeva bene che, con tale preavviso, il suo destino politico era oramai in mano ai nazionalisti ebraici, non poteva fare altro che sottostare ai loro ricatti. Le parole usate dal giornalista britannico meritano di essere riportate per l’ennesima volta: ‘’A mio parere, non è irragionevole ipotizzare che Ben Gurion avesse informato Truman che, se gli Stati Uniti non avessero riconosciuto lo Stato ebraico subito dopo la sua creazione, l’avrebbe fatto l’Unione Sovietica, e Israele, di conseguenza, l’avrebbe riconosciuta come sua amica e superpotenza alleata, non gli Stati Uniti. In breve, credo possibile che Ben Gurion giocasse, o avesse giocato per Truman, la carta del ricatto finale’’ ( pag. 362 )
Domanda: Israele avrebbe mai accettato di convivere con l’Urss che, seppur revisionista, restava un paese socialista? I fatti storici ci inducono a pensare che l’imperialismo israeliano, magari in modo diverso, si sarebbe riunito alla crociata anticomunista occidentale. Un elemento però, voglio metterlo in risalto: il sionismo strumentalizza tutto ciò che, nell’immediatezza, può essere manovrato. In questi termini avremo sempre “un Islam israeliano, un fascismo israeliano ed un comunismo israeliano”. Per i sionisti tutto può diventare un’utile pedina, basta saper fare le offerte giuste.
L’ultimo capitolo del libro – Il ‘’suicidio’’ di Forrestal – descrive la strana morte di James Forrestal, Segretario della Difesa degli Usa ed irriducibile avversario del progetto imperialistico sionista.
Hart ripercorre il caso Forrestal in modo puntuale ma preferisco portare l’attenzione del lettore su un argomento preciso. Cito Hart:
“Forrestal sapeva che stava chiedendo agli Stati Uniti di prendere un ‘’rischio calcolato per la sicurezza’’, ma si giustificò con queste parole: ‘’Finchè siamo in grado di produrre più di chiunque altro al mondo, in grado di controllare il mare e colpire l’entroterra con la bomba atomica, possiamo assumere determinati rischi, altrimenti inaccettabili, nel tentativo di ristabilire il commercio mondiale, ripristinare il rapporto di forza, la potenza militare ed eliminare alcune delle condizioni che generano la guerra’’’’ ( pag. 380 )
Forrestal era un uomo di destra che credeva nel capitalismo e nella forza della borghesia nord-americana. La lobby sionista, che è riuscita a piegare la sua resistenza anche grazie al precipitare degli eventi su scala mondiale, alla prova dei fatti, si è rivelata più forte dei gruppi sociali che l’appoggiavano. Ecco un’altra domanda a cui dobbiamo rispondere ( e la sottolineo ! ): Chi comanda ? L’imperialismo statunitense o le lobby sioniste ?’’ 1

Non serve commemorare questo gigante del giornalismo investigativo senza entrare nel merito delle sue ricerche. I suoi lavori hanno messo con le spalle al muro la lobby ebraica che ha fatto di tutto per impedire la presentazione di ‘’Sionismo, il vero nemico degli ebrei’’ (Vol. I) – tradotto, con merito, dallo storico Diego Siragusa – in Italia. Lo stesso Siragusa denunciò, durante il ‘’caso Hart’’, la genuflessione dell’ANPI – Associazione Nazionale Partigiani Italiani – alla lobby pro-Israele, quei signori balordi non dissimili, nei metodi, dall’estrema destra neofascista romana. Leggiamo: ‘’L’ANPI si è piegata in modo ignobile al volere dei sionisti romani, senza conoscere il libro, offendendo gli organizzatori, gli iscritti e il sottoscritto che ha tradotto e introdotto il libro. Nel comunicato provinciale dell’ANPI vi sono affermazioni indegne che si configurano come una speculare negazione della propria storia e della propria funzione. La presentazione del libro si farà in un luogo diverso e chiameremo l’ANPI a rendere conto del suo allineamento ai voleri dell’estrema destra israeliana e della sua sezione romana’’ 2. Un gesto ignobile, quello della ‘’sinistra per bene’’, che oggi merita d’essere ricordato giusto per rinnovare la nostra disistima nei suoi confronti. Alan Hart ha vinto, i sionisti sono davvero dei ‘’nuovi nazisti’’ come i suoi articoli dimostrano inequivocabilmente:

‘’Nel suo libro An Ethical Tradition Betrayed, The End of Judaism, (Una Tradizione Etica Tradita: La Fine del Giudaismo), pubblicato nel 2007, il Dr. Hajo G. Meyer, un superstite dell’Olocausto nazista e di Auschwitz, paragonava le politiche di Israele alle prime fasi della persecuzione nazista degli ebrei in Germania. Hajo Meyer sottolineava, allora, che non intendeva tracciare un parallelo tra le politiche attuali di Israele e la “soluzione finale” dei nazisti – il massacro di sei milioni di ebrei europei (oltre allo sterminio di molti non ebrei). Cercava solo di mettere in evidenza, così scriveva, quali fossero le condizioni che portarono a quella catastrofe in Europa, e la necessità di “prevenire le stesse probabili conseguenze” come risultato delle politiche oppressive che rendono i Palestinesi emarginati e profughi nella loro stessa terra. Ho il privilegio di intrattenere un rapporto di amicizia con Hajo Meyer e poco fa parlavamo insieme per commentare quanto succede in Gaza. Alla luce di ciò che l’esercito israeliano sta attualmente commettendo in Gaza, ho chiesto al mio amico se avesse ancora riserve nel tracciare quel parallelo – tra le politiche di Israele e quelle naziste. Mi ha risposto questo: “Diventa sempre più arduo evitare di riconoscere tale parallelo”. E ha concluso dicendo che era giunto il momento di dare ai sionisti israeliani radicali, e a coloro che eseguono i loro ordini, la definizione di “Nazisti”. 3

Hart non ha mai fatto concessioni al ‘’negazionismo olocaustico’’, tutt’altro: considerava i negazionisti (non del tutto assimilati ai revisionisti), per la loro idiozia, delle potenziali pedine d’Israele, da sempre abile nello strumentalizzare il becero antisemitismo della destra radicale. L’assimilazione del giudaismo al sionismo e l’esplosione d’un nuovo antisemitismo anti-ebraico, per il nostro, è il peggior regalo che si possa fare ai sionisti: ‘’Il sionismo non ci arriva, non riesce a capire. E’ troppo accecato dalla propria insopportabile auto-rettitudine per vedere che la sua creatura mostruosa è la causa primaria del risveglio del gigante anti-semita. Solo che non si tratta più di anti-Semitismo: si tratta di anti-Israelismo. Il pericolo è che potrebbe facilmente diventare anti-Semitismo nel senso occidentale del termine – e cioè, ripugnanza e odio per gli ebrei solo perché sono ebrei – se l’Occidente non viene assistito a comprendere la differenza tra Giudaismo e Sionismo. E’ tale differenza che spiega perché è del tutto possibile essere appassionatamente anti-Sionisti, senza essere in alcun modo anti-Ebrei. E spiega anche perché è sbagliato incolpare tutti gli ebrei ovunque nel mondo per i crimini commessi dagli israeliani, ma neanche da parte di tutti gli israeliani’’ 4. Il sionismo non ci arriva, la pagina del nostro è magistrale, una lezione metodica; Israele non è soltanto colonialismo, razzismo e violenza, ma anche bigottismo, ottusità, conformismo ipocrita ed irrazionalità politica. Il suo monito dovrebbe tenere a freno tanti sciocchi, ignobili fascistelli, che riempiono la rete con i loro deliri: ‘’E’ un dato di fatto che prima dell’olocausto nazista la maggioranza degli ebrei nel mondo era contraria al progetto coloniale del sionismo. I meglio informati e più ragionevoli tra loro, temevano che qualora le grandi potenze avessero permesso al sionismo di averla vinta, ciò avrebbe prima o poi provocato l’anti-semitismo classico’’. Domanda: l’Alt Right antisemita è una creatura del Mossad? Seguendo l’analisi di Hart non è da escludere.

Questo gigante della informazione ha messo in discussione, con documenti alla mano, la tesi ufficiale sull’11/9, affrontando, con senso civico, il problema dell’islamofobia: ‘’Come era facile prevedere, dopo l’11 settembre un’ondata di crescente islamo-fobia attraversò l’intero mondo occidentale e in particolare gli Stati Uniti d’America. Nelle menti del pubblico americano disinformato e ignaro – e quindi della maggioranza degli americani – fu rinforzato il falso credo propagato dal sionismo che Israele rappresentasse per l’America l’unico vero alleato affidabile nell’intera regione Araba e Islamica’’ 5. Se un giornalista deve insegnare ai cittadini a diffidare del potere costituito, Hart ha esercitato questa professione magistralmente. Le certezze consolidate (ideologia, ovvero ‘’falsa coscienza’’) sono state, una dopo l’altra, fatte a pezzi. I potenti hanno avuto di che avere paura.

Ci ha lasciati uno storico rigoroso, un giornalista con la schiena dritta che ha dimostrato cosa ognuno di noi può fare se mette da parte gli alibi propri delle persone non coraggiose.

I ‘’conigli’’ ben posizionati nelle redazioni dei grandi giornali e nelle università, moralmente corresponsabili dei massacri colonialisti ed imperialisti. Contro di loro, Alan combatteva.


http://www.linterferenza.info/cultura/alan-hart-il-sionismo-il-vero-nemico-degli-ebrei/
http://www.civg.it/index.php?option=com_multicategories&view=article&id=808:comunicati-stampa-di-diego-siragusa-dopo-la-presentazione-a-roma-del-libro-sionismo-il-vero-nemico-degli-ebrei&catid=40&Itemid=399
https://civiumlibertas.blogspot.it/2010/01/alan-hart-i-nuovi-nazisti.html
https://civiumlibertas.blogspot.it/2010/01/alan-hart-e-anti-israelismo-perche-il.html
https://hovistocosechevoiumani.wordpress.com/2011/09/20/alan-hart-analisi-sul-probabile-coinvolgimento-del-mossad-negli-attacchi-dell%E2%80%9911-settembre-stampa-libera/

ARMI: E’ QUESTO IL NOSTRO NATALE DI PACE ?


di padre Alex Zanotelli

Sono indignato davanti a quest’Italia che si sta sempre più militarizzando. 
Lo vedo proprio a partire dal Sud, il territorio economicamente più disastrato d’Europa, eppure sempre più militarizzato. 
Nel 2015 è stata inaugurata a Lago Patria (parte della città metropolitana di Napoli) una delle più importanti basi NATO d’Europa, che il 5 settembre scorso è stata trasformata nell’Hub contro il terrorismo (centro di spionaggio per il Mediterraneo e l’Africa). 
Sempre a Napoli, la famosa caserma della Nunziatella è stata venduta dal Comune di Napoli per diventare la Scuola Europea di guerra, così vuole la Ministra della Difesa F. Pinotti. 
Ad Amendola (Foggia) è arrivato lo scorso anno il primo cacciabombardiere F-35 armabile con le nuove bombe atomiche B 61-12. 
In Sicilia, la base militare di Sigonella (Catania) diventerà nel 2018 la capitale mondiale dei droni. E sempre in Sicilia, a Niscemi (Trapani) è stato installato il quarto polo mondiale delle comunicazioni militari, il cosidetto MUOS. 
Mentre il Sud sprofonda a livello economico, cresce la militarizzazione del territorio (non è per caso che così tanti giovani del Sud trovino poi rifugio nell’Esercito italiano per poter lavorare!).

Ma anche a livello nazionale vedo un’analoga tendenza: sempre più spese in armi e sempre meno per l’istruzione, sanità e welfare. 
Basta vedere il Fondo di investimenti del governo italiano per i prossimi anni per rendersene conto. 
Su 46 miliardi previsti, ben 10 miliardi sono destinati al Ministero della Difesa: 5.3 miliardi per modernizzare le nostre armi e 2.6 per costruire il Pentagono italiano,  ossia un’unica struttura per i vertici di tutte le nostre forze armate, con sede a Centocelle (Roma).

L’Italia infatti sta investendo sempre più in campo militare sia a livello nazionale, europeo ed internazionale.    L’Italia sta oggi spendendo una barca di soldi per gli F-35, si tratta di 14 miliardi di euro!
Questo, nonostante che la Corte dei Conti abbia fatto notare che ogni aereo ci costerà almeno 130 milioni di euro contro i 69 milioni previsti nel 2007. 
Quest’anno il governo italiano spenderà 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno. Per il 2018 si prevede un miliardo in più.

Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza oggi all’8° posto mondiale. 
Lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015! Grazie alla vendita di 28 Eurofighter al Kuwait per otto miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, ottima PIAZZISTA DI ARMI.

E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, in barba alla legge 185 che ce lo proibisce. 
Continuiamo a vendere bombe, prodotte dall’azienda RMW Italia a Domusnovas (Sardegna), all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’ONU (e questo nonostante le quattro mozioni del Parlamento Europeo!).

L’Italia ha venduto armi al Qatar e agli Emirati Arabi con cui quei paesi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa (noi che ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo!). 
Siamo diventati talmente competitivi in questo settore che abbiamo vinto una commessa per costruire quattro corvette e due pattugliatori per un valore di 40 miliardi per il Kuwait.
Non meno preoccupante è la nostra produzione di armi leggere:  siamo al secondo posto dopo gli USA!     Sono queste le armi che uccidono di più! E di questo commercio si sa pochissimo.

Quest’economia di guerra sospinge il governo italiano ad appoggiare la militarizzazione della UE. 
E’ stato inaugurato a Bruxelles il Centro di pianificazione e comando per tutte le missioni di addestramento, vero e proprio quartier generale unico. 
Inoltre la Commissione Europea ha lanciato un Fondo per la Difesa che a regime svilupperà 5,5 miliardi di investimento l’anno per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore militare. 
Questo fondo, lanciato il 22 giugno, rappresenta una massiccia iniezione di denaro pubblico nell’industria bellica europea. 
Sta per nascere la PESCO - Cooperazione Strutturata Permanente della UE nel settore militare (la Shengen della Difesa!). “Rafforzare l’Europa della Difesa – afferma la Mogherini, Alto Rappresentante della UE per gli Affari Esteri – rafforza anche la NATO.”

La NATO, di cui la UE è prigioniera, è diventata un mostro che spende 1000 miliardi di dollari in armi all’anno. 
Trump chiede ora ai 28 paesi membri della NATO di destinare il 2% del Pil alla Difesa. 
L’Italia destina oggi 1,2 % del Pil per la Difesa. Gentiloni e la Pinotti hanno già detto di sì al diktat di Trump. 
Così l’Italia arriverà a spendere 100 milioni al giorno in armi. 

Così la NATO trionfa, mentre è in forse il futuro della UE. Infatti è la NATO che ha forzato la UE a creare la nuova frontiera all’Est contro il nuovo nemico, la Russia, con un imponente dispiegamento di forze militari in Ucraina, Polonia, Romania, Bulgaria, in Estonia, Lettonia e con la partecipazione anche dell’Italia. 
La NATO ha stanziato 17 miliardi di dollari per lo “Scudo anti-missili.
E gli USA hanno l’intenzione di installare in Europa missili nucleari simili ai Pershing 2 e ai Cruise (come quelli di Comiso). 
E la Russia sta rispondendo con un altrettanto potente arsenale balistico.

Fa parte di questo piano anche l’ammodernamento delle oltre duecento bombe atomiche B61, piazzate in Europa e sostituite con le nuove B61-12 . 
Il Ministero della Difesa ha pubblicato in questi giorni sulla Gazzetta Ufficiale il bando di costruzione a Ghedi (Brescia) di nuove infrastrutture che ospiteranno una trentina di F-35 capaci di portare cadauno due bombe atomiche B61-12. 
Quindi solo a Ghedi potremo avere una sessantina di B61-12, il triplo delle attuali! 

Sarà così anche ad Aviano? Se fosse così rischiamo di avere in Italia una forza atomica pari a 300 bombe atomiche di Hiroshima!     Nel silenzio più totale! Mai come oggi, ci dicono gli esperti, siamo vicini al ‘baratro atomico’. 
Ecco perché è stato provvidenziale il Trattato dell’ONU, votato il 7 luglio scorso, che mette al bando le armi nucleari. 

Eppure l’Italia non l’ha votato e non ha intenzione di votarlo! 
E’ una vergogna nazionale.

Siamo grati a Papa Francesco per aver convocato un incontro, lo scorso novembre, in Vaticano sul nucleare, proprio in questo grave momento in cui il rischio di una guerra nucleare è alto e per il suo invito a mettere al bando le armi nucleari.
Quello che non riesco a capire è l’incapacità del movimento della pace a mettersi insieme e scendere in piazza a urlare contro un’Italia e Unione Europea che si stanno armando sempre di più, davanti a guerre senza numero, davanti a un mondo che rischia l’olocausto nucleare. 

Eppure in Italia c’è una straordinaria ricchezza di gruppi, comitati, associazioni, reti che operano per la pace.   Ma purtroppo ognuno fa la sua strada.
E come mai tanto silenzio da parte dei vescovi italiani? E che dire della parrocchie, delle comunità cristiane che si apprestano a celebrare la nascita del “Principe della Pace?”
“Siamo vicini al Natale - ci ammonisce Papa Francesco - ci
saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi… tutto truccato: il mondo continua a fare guerra!”
Oggi più che mai c’è bisogno di un movimento popolare che contesti radicalmente questa economia di guerra.


Alex Zanotelli       Napoli, 5 dicembre 2017

lunedì 15 gennaio 2018

PAPA FRANCESCO TORNA ALLA FINE DEL MONDO


di Livio Zanotti


Questo Papa ha scelto di vivere sulla strada e non si lascia spaventare dai TIR che lo sfiorano, vuol essere un profeta del nostro tempo, i riti curiali gli appaiono fuori moda. Fa uso accorto e tenace della diplomazia, conosce l’arte del compromesso; ma al momento opportuno, sale su un aereo e va a mettersi nella realtà sfilacciata e contraddittoria della storia così com’è, allo scoperto: tra un vescovo sospettato di complicità pedofile e gesti di teppismo anti-cattolico in piena Santiago del Cile. Né starà più tranquillo in Perù, la seconda tappa del suo ventiduesimo viaggio.

Se una parte degli Araucani cileni lo indica come l’erede di quella croce brandita 5 secoli fa dai Conquistadores insieme alla spada che recise i loro diritti di persone, oltre che di popoli originari, Francesco sceglie di rivolgersi a loro per primi. E non li attende nei palazzi dei fasti urbani, sedi tradizionali del potere ancora ben presidiati: va a incontrarli sull’estreme terre australi dei loro avi, che essi ormai rivendicano anche alla stessa Chiesa di Roma con ondate di carte bollate e non senza qualche misteriosa fucilata notturna.

Papa Francesco con gli IndiosFrancesco torna così da evangelizzatore alla fine del mondo (da cui scherzosamente ma non tanto ha detto di venire, appena eletto Papa). Dal Cile al Perù s’infila per una settimana ad occhi ben aperti in un tunnel di problemi spirituali e soprattutto sociali, in cui negli ultimi anni si sono smarriti non pochi politici già prestigiosi, governi e partiti che girano ormai su se stessi senza riuscire a ritrovare un’utile direzione di marcia. La socialista Bachelet lascia in eredità al neo-eletto presidente conservatore Piñera il nuovo Ministero per i popoli originari (e i suoi roventi problemi).

Il continente latinoamericano rimane del resto il più cattolico del mondo, ma il primato appare vistosamente insidiato da quattro decenni di scomode verità ignorate o nascoste dalla gerarchia, scandali, crisi delle vocazioni, penetrazione delle chiese evangeliche e delle sette fondamentaliste. Nel 1995, secondo l’autorevole agenzia Latinobarometro si definiva cattolico l’80 per cento dei latinoamericani, oggi soltanto il 59. In Cile, sono al 45 per cento: il paese non è più a maggioranza cattolica.

Accelerata dall’uso crescente di tecnologie avanzate, l’instabilità sociale ed economica ripercuote sulla fede religiosa e alimenta un processo di secolarizzazione che in parte (ma solo in piccola parte) coincide con la conquista di nuovi diritti, a lungo negati: i deputati cileni stanno discutendo proprio in questi giorni la legge sull’identità di genere. L’umanesimo universale di Francesco eviterà di affrontare direttamente il tema, quanto meno in pubblico. Ma nessuno può assicurargli che resterà al riparo dalle polemiche.


Severe e solo a prima vista meno scomode, saranno per lui e il Cardinale Segretario di Stato che l’accompagna, Pietro Parolin, quelle che troverà in Perù. L’indulto concesso dal presidente Pedro Pablo Kuczynski all’ex dittatore genocida Alberto Fujimori, condannato all’ergastolo, hanno scatenato manifestazioni di strada contrapposte nel centro della capitale, Lima, e nelle maggiori città del paese. A stringere un nodo alla gola del Perù è il partito della famiglia Fujimori, che con due dei figli alla testa, Keiko, la preferita, e Kenji, il maschio simbolo della tradizione giapponese, controllano la maggioranza del Congresso.

Questa è una saga shakespeariana in cui genialità e delitto tessono una vicenda internazionale che da trent’anni tiene in scacco le istituzioni democratiche del Perù. Passa attraverso scommesse geopolitiche a cui non si sono sottratti diversi governi di Tokio, parzialmente contrastati dai servizi segreti israeliani e infine interrotti solo dall’intervento degli Stati Uniti. Ma ora tutti tornano in gioco, alla presenza di Papa Francesco. Perché coinvolto nelle corruzioni sistematiche dell’impresa brasiliana Odebrecht e a rischio di impeachment, il presidente Kuczynski non ha saputo respingere il ricatto dei Fujimori. Il peruviano Mario Vargas Llosa, Nobel di Letteratura, ne sta scrivendo una storia.

sabato 13 gennaio 2018

Mons Nassar, arcivescovo di Damasco, sfugge alla morte




giovedì 11 gennaio 2018

L'8 gennaio, gli attentati hanno colpito gravemente la città vecchia di Damasco, tra cui la cattedrale maronita e la residenza dell'Arcivescovo, sopravvissuto "per provvidenza". Pubblichiamo qui la testimonianza che il vescovo Samir Nassar ha appena inviato a Aiuto alla Chiesa che Soffre

Provvidenza
"Una granata  è caduta sul mio letto lunedì 8 gennaio 2018. Alle 13:20, mentre mi preparavo a fare un pisolino. Qualche secondo al lavandino mi ha salvato la vita ... il letto è pieno di schegge di mortaio.
La Provvidenza veglia sul suo piccolo servitore.
Ora sono esiliato, come 12 milioni di profughi siriani che non hanno più niente.
Il danno è importante: le porte della Cattedrale e  43 porte e finestre devono essere sostituite, dei fori da tappare, i serbatoi del gasolio e dell'acqua da riparare, la rete elettrica da rifare, una macchina danneggiata. 
La violenza è la sola padrona ... gli innocenti vengono sacrificati ogni giorno.
I preti mantengono alto il morale. Hanno pianto di gioia vedendomi uscire vivo dal fumo e dai detriti ... Grazie Signore per questo nuovo inizio. La mia vita ti appartiene.
Nell'unione di preghiera di fronte a Nostra Signora della Pace. "

+ Samir NASSAR 
Arcivescovo maronita di Damasco

venerdì 12 gennaio 2018

Israele, una democrazia davvero unica in Medio Oriente


di Zvi Schuldiner

11.01.2018
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Il comitato centrale del Likud – il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu – ha votato per acclamazione a favore dell’annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Il procuratore generale di Israele ha dato istruzioni ai suoi uffici: occorre determinare in che modo i disegni di legge dei vari ministeri dovranno essere applicati ai 400mila coloni degli insediamenti nei territori occupati.
La legislazione israeliana non vigeva nei territori occupati: per il diritto internazionale, la potenza occupante non deve introdurre cambiamenti nelle aree soggette a occupazione, salvo in casi speciali motivati da ragioni di sicurezza o legati al benessere delle popolazioni interessate.
Il Parlamento israeliano ha approvato in prima lettura – saranno necessarie altre fasi – la legge che consentirà di introdurre la pena di morte per i terroristi che abbiano ucciso israeliani. L’esercito e varie agenzie di intelligence si sono opposti, ma hanno avuto la meglio le esigenze populiste di Netanyahu e del ministro della difesa Lieberman.
La riconciliazione palestinese – fragile e relativa – ha portato concessioni e accordi fra l’Autorità palestinese e Israele; così gli abitanti della Striscia di Gaza godranno di otto ore giornaliere di elettricità al posto delle quattro precedenti. Un bel cambiamento! È stata prorogata di otto mesi la detenzione amministrativa di Halda Jerrar, una parlamentare palestinese che avrebbe dovuto essere liberata in questi giorni, dopo sei mesi dietro le sbarre. In famiglia la aspettavano, ma fonti della «sicurezza» hanno segnalato che si tratta di una persona pericolosa che fa parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. In casi come questo, le prove non sono pubblicate per ragioni di sicurezza.
Ahed Tamimi, la «pericolosissima» palestinese di 16 anni che ha schiaffeggiato un ufficiale dell’esercito israeliano, continua a rimanere in carcere e sarà presto accusata di diversi crimini.
Gli ebrei che tendono a farsi del male rivangando stupidi ricordi, in questi giorni si sono ricordati di quella Alcobi, un’ebrea di Hebron diventata molto famosa per gli insulti e le pietre lanciate contro alcuni palestinesi. Nel 2010 prese a sassate un soldato israeliano che aveva cercato di trattenerla; fu arrestata ma «fortunatamente» rilasciata dopo poche ore, senza che fosse avviato alcun processo.
Anche un giovane colono ebreo che aveva accoltellato il rabbino Asherman, dell’organizzazione Rabbini per i diritti umani, era stato liberato con la condizionale, essendosi dichiarato pentito.
Il giudice della Corte suprema Noam Solberg – che vive in un insediamento nei territori occupati – rispetto a una denuncia presentata per la sua partecipazione a un evento politico di celebrazione del 50esimo anniversario dell’occupazione dei territori ha spiegato di aver assistito con la famiglia a una celebrazione con canti e altro, senza carattere politico.
Il primo ministro Netanyahu continua a far di tutto per cercare di introdurre qualunque norma e provvedimento in grado di far dimenticare i casi problematici di corruzione nei quali sembra coinvolto. Un noto deputato del Likud e altri politici legati al premier sono accusati di corruzione.
Se l’escalation nel Sud continua, una miniguerra diventa probabile; e occuperà le menti più della corruzione.
La legge sulla nazionalità sarà discussa nelle prossime settimane e permetterà di accentuare il carattere di apartheid, come dicono le malelingue, del paese.
Non tutto è discriminazione nei confronti dei palestinesi. In omaggio a un po’ di eguaglianza, anche diversi ebrei e organizzazioni come Jewish for Peace presto non potranno recarsi nel paese anche se là hanno familiari come è il caso della direttrice del gruppo.
In questa breve rassegna degli ultimi sforzi per consolidare l’unica, davvero unicissima democrazia nel Medioriente, non sono inclusi l’esercizio quotidiano dell’oppressione militare e poliziesca, i morti e feriti, le forme reiterate di rapina delle terre in un regime di colonizzazione.
Ci siamo limitati a riferire di alcuni aspetti della legislazione recente nell’unica democrazia del Medioriente.
Sei milioni di ebrei con pieni diritti formali, due milioni di palestinesi che godono di diritti ma sono discriminati, e infine quattro milioni di palestinesi sotto occupazione militare, senza alcun diritto politico o nazionale.

© 2018 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

mercoledì 10 gennaio 2018

Il vero libro esplosivo è a firma Trump


di Manlio Dinucci


Tutti parlano del libro esplosivo su Trump, con rivelazioni sensazionali di come Donald si fa il ciuffo, di come lui e la moglie dormono in camere separate, di cosa si dice alle sue spalle nei corridoi della Casa Bianca, di cosa ha fatto suo figlio maggiore che, incontrando una avvocatessa russa alla Trump Tower di New York, ha tradito la patria e sovvertito l’esito delle elezioni presidenziali. 

Quasi nessuno, invece, parla di un libro dal contenuto veramente esplosivo, uscito poco prima a firma del presidente Donald Trump: «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti». È un documento periodico redatto dai poteri forti delle diverse amministrazioni, anzitutto da quelli militari. 

Rispetto al precedente, pubblicato dall’amministrazione Obama nel 2015, quello dell’amministrazione Trump contiene elementi di sostanziale continuità. Basilare il concetto che, per «mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera», occorre avere «la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo». Lo stesso concetto espresso dall’amministrazione Obama (così come dalle precedenti): «Per garantire la sicurezza del suo popolo, l’America deve dirigere da una posizione di forza». 

Rispetto al documento strategico dell’amministrazione Obama, che parlava di «aggressione russa all’Ucraina» e di «allerta per la modernizzazione militare della Cina e per la sua crescente presenza in Asia», quello dell’amministrazione Trump è molto più esplicito: «La Cina e la Russia sfidano la potenza, l’influenza e gli interessi dell’America, tentando di erodere la sua sicurezza e prosperità». 

In tal modo gli autori del documento strategico scoprono le carte mostrando qual è la vera posta in gioco per gli Stati uniti: il rischio crescente di perdere la supremazia economica di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali, anzitutto Cina e Russia le quali stanno adottando misure per ridurre il predominio del dollaro che permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale. 

«Cina e Russia  – sottolinea il documento strategico – vogliono formare un mondo antitetico ai valori e agli interessi Usa. La Cina cerca di prendere il posto  degli Stati uniti nella regione del Pacifico, diffondendo il suo modello di economia a conduzione statale. La Russia cerca di riacquistare il suo status di grande potenza e stabilire sfere di influenza vicino ai suoi confini. Mira a indebolire l’influenza statunitense nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner». 

Da qui una vera e propria dichiarazione di guerra: «Competeremo con tutti gli strumenti della nostra potenza nazionale per assicurare che le regioni del mondo non siano dominate da una singola potenza», ossia per far sì che siano tutte dominate dagli Stati uniti. 

Fra «tutti gli strumenti» è compreso ovviamente quello militare, in cui gli Usa sono superiori. Come sottolineava il documento strategico dell’amministrazione Obama, «possediamo una forza militare la cui potenza, tecnologia e portata geostrategica non ha eguali nella storia dell’umanità; abbiamo la Nato, la più forte alleanza del mondo». 

La «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti», a firma Trump, coinvolge quindi l’Italia e gli altri paesi della Nato, chiamati a rafforzare il fianco orientale contro l’«aggressione russa», e a destinare almeno  il 2% del pil alla spesa militare e il 20% di questa all’acquisizione di nuove forze e armi. 

L’Europa va in guerra, ma non se ne parla nei dibattiti televisivi: questo non è un tema elettorale.

(il manifesto, 9 gennaio 2018)