mercoledì 28 marzo 2018

Lo sapevate? La presstitute e l'odio dell'Occidente per i laici. Il caso di Ahmadinejad


di Pi0tr


Una interessante notizia mi spinge a parlare dell'ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadiejad.

Durante il suo mandato come presidente della Repubblica Islamica dell'Iran i governi occidentali con al seguito i grandi media mainstream, non hanno fatto che strillare contro Mahmoud Ahmadiejad, accusandolo di ogni nefandezza, tra le quali la non-lapidazione di Sakineh Ashtiani. Non-lapidazione, perché non fu né poteva essere lapidata. Eppure il “prestigioso” Corriere della Sera con un articolo di Monica Ricci Sargentini scriveva il 19 marzo del 2014: “E’ stata rilasciata per buona condotta Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata nel 2006 alla lapidazione per adulterio e per il suo presunto coinvolgimento nell’uccisione del marito.” (il grassetto è dell'articolo).

Una sfilza di fake news in un singolo incipit. 1) La Ashtiani era stata condannata all'impiccagione, perché in Iran non si pratica la lapidazione. 2) La Ashtiani era stata condannata a morte per l'assassinio del marito in complicità con l'amante e non fu mai processata per adulterio. 3) La Ashtiani non fu liberata per buona condotta, ma perché ricevette il perdono dei famigliari dell'ucciso.


Quando si parla di presstitute, si usa un termine molto preciso.

Comunque per il caso Ashtiani si mobilitò tutto il cucuzzaro dei bombardatori umanitari, con in testa quel gentiluomo di Sarkozy che si fece aiutare anche da quel genio della moglie Carla Bruni. L'obiettivo era la demonizzazione di Mahmoud Ahmadinejad e della Repubblica Islamica.

Ma quali erano le reali colpe di Ahmadiejad agli occhi dell'Occidente e della sua presstitute?

Cercherò di vederle da punto di vista importante ma accuratamente sottaciuto: era laico e progressista.

Ahmenadinejad è stato il primo presidente laico della Repubblica Islamica dai tempi di Abolhassan Banisadr nel 1980. E i laici nei Paesi islamici sono da sempre odiati dall'Occidente “laico e progressista”.

Fu odiato l'algerino Ahmed Ben Bella, stimatissimo combattente per la libertà del suo Paese, fu odiato lo splendido Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, Paese a maggioranza islamica. Odiato e ucciso da un complotto di Stati Uniti e Francia. Fu odiato e ucciso Saddam Hussein. Fu odiato e ucciso Muammar Gheddafi (anche in questo caso da Stati Uniti e Francia). E' oggi odiato Bashar Assad.

Tutti laici e, per quanto male se ne voglia o possa dire, scrupolosi difensori delle differenti convinzioni religiose e della non ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini. Una cosa inammissibile in Occidente dove l'Impero Britannico speculava sui sacrifici umani dell'Orissa, reprimeva i movimenti anti-casta e si appoggiava su tutto ciò che di retrivo poteva trovare, giungendo a bloccare le riforme antifeudali dell'Impero Moghul e gestendo il più grande narcotraffico della Storia, imposto con le due Guerre dell'Oppio all'Impero Cinese che da questo flagello voleva invece salvaguardare i propri sudditi (colpa enorme agli occhi di Londra).



E noi eravamo i “civilizzatori”.

Ahmadinejad era contrario alla pena di morte. Alcuni di voi lo sanno, ma so anche che la maggioranza dei miei corrispondenti lo ignorano e a loro principalmente mi rivolgo. Non è colpa vostra, ma perché le sue dichiarazioni contro la pena di morte sono state censurate dalla nostra presstitute.

Ahmadinejad cercava vigorosamente di laicizzare l'Iran. Anche questo non lo sapete. Non sapete che moltissime sue proposte di legge in tal senso furono bloccate.

Ahmadinejad era inviso al clero sciita. Scommetto che non sapete che mentre era in carica aveva rischiato una fatwa, istigata dall'entourage dello sconfitto candidato presidente Mir-Hossein Mousavi, il cocco dell'Occidente che la nostra presstitute descriveva come una sorta di “Gandhi iraniano” ma era un boss petrolifero colpevole dello sterminio di decine di migliaia di militanti della sinistra laica ed islamica iraniana.

Ahmadinejad era antimperialista e anche antiliberista. Aveva ad esempio esteso la sicurezza sociale ai tessitori di tappeti che la aspettavano da anni senza averla. Questa era la sua grande colpa, la colpa vera. Lo sapevate?

Cosa sta combinando oggi Mahmoud Ahmadinejad?

Ha accusato con una lettera la Guida Suprema ayatollah Ali Khamenei, di storno illegale di 80 miliardi di rials. Lo sapevate? E avreste le palle per farlo se foste iraniani? Beh, la notizia è recente, ma qualcosa mi dice che non verrà mai messa in prima pagina dalla nostra presstitute, se pure verrà mai pubblicata.

In febbraio aveva chiesto la liberazione dei prigionieri politici e la destituzione del capo del sistema giudiziario, Sadeq Larijani. Lo sapevate?

Come risposta è stato messo agli arresti domiciliari assieme al suo collaboratore Esfandiar Rahim-Mashaei, simbolo in Iran della lotta per la laicizzazione delle istituzioni della Repubblica.

Lo sapevate? Mi sa di no.


UNO SCONTRO EPOCALE, UN MOMENTO PERICOLOSO


di Vincenzo Brandi

Mentre tutti i giornali e le TV nostrane sono impegnati sulle modeste vicende politiche di casa
nostra fatte di patteggiamenti di basso livello, veti incrociati, piccoli ricatti, false promesse, a molti
sfugge la drammaticità del contesto internazionale dove assistiamo ad uno scontro epocale dai
risvolti molto pericolosi.
Le potenze nord-atlantiche, guidate dagli USA, puntano in modo sempre più aggressivo sulla
Russia di Putin, rea di non inchinarsi agli interessi imperiali statunitensi come ai bei vecchi tempi di
Gorbaciov ed Eltsin. Contemporaneamente cercano di far fronte alla perdurante stagnazione
economica occidentale, ed ai continui pericoli di nuove crisi, cercando di tamponare l’ascesa
impetuosa di concorrenti politici ed economici, tra cui si distingue la Cina. Questo grande ex-paese
coloniale, un tempo preda privilegiata di imperialismi occidentali e giapponesi, non solo ha da
tempo superato gli USA in termini di produzione globale (espressa in termini reali, cioè tenuto
conto dei prezzi interni), ma ormai supera gli USA anche in settori tecnologici di avanguardia come
quello dei supercomputer e della computazione quantistica (1).
Dopo le ridicole mai provate accuse lanciate agli hacker russi che avrebbero determinato la sconfitta
della povera Clinton, ora la campagna denigratoria è stata lanciata dagli Inglesi, capeggiati dal
borioso ministro degli Esteri Boris Johnson. Il cattivo Putin in persona è accusato di aver fatto
avvelenare col gas Sarin (perbacco! Lo stesso che sarebbe stato usato anche in Siria!) una ex-spia di
basso livello ormai in tranquilla pensione in Inghilterra da otto anni. Questa follia sarebbe stata
commessa da Putin giusto alla vigilia delle elezioni presidenziali russe e dei Campionati di Calcio
in Russia cui quel paese teneva moltissimo come rilancio di immagine. Un vero autogol! Peccato
che gli Inglesi, pur di fronte alle argomentate richieste russe, non abbiano fornito alcuna prova.
La mancanza di prove non ha impedito però all’Unione Europea ed a tutti i paesi della NATO di
seguire l’esempio britannico ed espellere circa 150 diplomatici russi. Anche il nostro Governo
leccapiedi guidato da Gentiloni non ha voluto essere da meno ed ha espulso due diplomatici.
Bisogna dare atto al leghista Salvini di essere stato l’unico a criticare questa decisione, forse perché
i tanto deprecati “populisti” in questo momento sono più in grado di “leggere” la situazione, rispetto
alle ormai decerebrate ex-sinistre. Tutta l’operazione si è dimostrata un completo fallimento visto
l’autentico plebiscito ottenuto da Putin, intorno a cui tutto il popolo russo si è stretto, compresi i due
principali candidati dell’opposizione (il comunista ed il nazionalista) che in fatto di politica estera
sostengono pienamente il loro governo.
Il problema è che queste operazioni propagandistiche servono in realtà a preparare l’opinione
pubblica occidentale a non opporsi ad un confronto anche sul piano militare con la Russia. Mentre i
missili e le truppe corazzate della NATO sono ormai schierati a pochi chilometri dai confini russi e
si minaccia una ripresa dei combattimenti in Ucraina, lo scontro più duro e diretto avviene in Siria.
Qui il Governo laico del Presidente Assad si è dimostrato molto più forte del previsto. Spalleggiato
da gran parte della civilissima multi-etnica e multi-religiosa popolazione siriana, e con l’aiuto
importante dei Russi, il Governo ha progressivamente sconfitto tutti i gruppi di fanatici jihadisti e
salafiti, in gran parte formati da estremisti stranieri, che avevano cercato di destabilizzare il paese.
L’ultima grande vittoria dell’esercito governativo è quella ottenuta con la liberazione dei sobborghi
di Damasco definiti Ghouta. Qui da sei anni alcune bande terroriste tenevano in ostaggio la
popolazione tormentando la popolazione del centro di Damasco, e specialmente i quartieri cristiani,
con continui bombardamenti con mortai che mietevano molte vittime civili. Ora, quasi tutti i gruppi
(Jaish Al-Islam finanziato dall’Arabia Saudita, Failaq Al-Ahram finanziato dal Qatar, Ahrar Al-
Sham finanziato dalla Turchia, Tahrir Al-Sham facente parte di Al Qaida), sconfitti sul campo,

hanno accettato di sgombrare la zona mediante salvacondotti. Questo ha posto fine anche
all’assurda campagna pseudo-umanitaria, alimentata anche da giornalisti di regime, come Ricucci e
le note Botteri e Goracci, che ha cercato fino alla fine di fermare l’operazione dell’esercito ed
evitare la sconfitta dei fondamentalisti.
Purtroppo i protettori dei cosiddetti “ribelli” non demordono. L’esercito USA, servendosi anche dei
miliziani curdi come carne da cannone, con la scusa della lotta all’ISIS, ha occupato tutte le zone
della Siria orientale dove si trova il 70% dei giacimenti di gas e petrolio per sottrarre risorse al
Governo siriano vittorioso per la ricostruzione post-bellica. Anche la zona strategica di Al Tanf,
posta sulla grande autostrada Bagdad-Damasco è stata occupata dagli USA per bloccare le
comunicazioni tra Siria ed Iraq. Gli USA dichiarano che non se ne andranno più e bombardano chi
osa avvicinarsi. I Russi dichiarano che risponderanno se minacciati, e Putin fa sapere di possedere
missili che possono colpire ogni zona del mondo senza essere intercettati. Da parte loro i Curdi,
dopo aver fatto da mercenari agli USA sperando nel loro aiuto, tradendo Assad che li aveva accolti
in Siria insieme al loro capo Ocalan rifugiato e protetto in Siria per 20 anni, ora sono “scaricati” e
devono sostenere l’attacco della Turchia di Erdogan. Chi scrive è stato in passato sostenitore del
PKK (Partito Comunista Curdo) visitando varie volte le zone di confine tra Turchia, Siria ed Iraq;
ma oggi non può far altro che criticare le sciagurate ed autolesioniste scelte dei dirigenti curdi.
Anche Israele, mentre continua a massacrare e scacciare la gente palestinese e ad arrestare anche le
ragazzine che hanno osato resistere ai soldati, sostiene alla frontiera siriana, nel Golan e nel bacino
dello Yarmuk, le formazioni salafite e dello Stato Islamico per tenere a distanza l’esercito di Assad
ed i suoi alleati, gli Hezbollah libanesi, che già sconfissero lo stato sionista nel 2000 e nel 2006.
“Dulcis in fundo”: ora Trump, dopo aver minacciato di denunciare l’accordo di compromesso
raggiunto tra Obama e l’Iran, dopo aver spostato l’Ambasciata USA a Gerusalemme (“capitale
indivisa dello stato ebraico”), scatena anche una avventata guerra dei dazi contro la Cina, che
certamente gli si ritorcerà contro. Invece, rimanendo in Estremo Oriente, sembra essersi
ammosciata la campagna di minacce contro la Corea Popolare. Il fatto è che questo piccolo e
combattivo stato si è dotato di armi atomiche; non come l’Iraq di Saddam e la Libia di Gheddafi che
non avevano l’atomica; e se ne sono viste le conseguenze.
Ma l’eco di questo scontro epocale che vede un confronto duro e pericoloso tra gli USA ed i loro
alleati, da un lato, e Russia, Cina, Siria, Iran, Venezuela, Cuba, ed altri stati indipendenti dall’altro,
giunge attutito in Italia dove si discute solo “de minimis”. Anche l’ex-sinistra “radicale”, quella che
abboccò all’inganno delle “primavere arabe” e, ancor prima, alla “rivoluzione” contro Milosevic
finanziata da George Soros, dorme sonni tranquilli parlando al massimo, ed impropriamente, di
“migranti” o ricorrendo ad un “antifascismo” strumentale.

(1)”La sfida USA-Cina per l’egemonia tecnologica”, F. Garofalo, Marx21.it

Le ferite autoinflitte di Israele


DI RONALD S. LAUDER

18 marzo 2018,The New York Times

Fonte: ZEITUN

Mentre lo Stato di Israele si avvicina al suo settantesimo anniversario, sono molto orgoglioso quando vedo il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia trasformato nella nazione prospera e forte che è oggi.

In quanto presidente del Congresso Mondiale Ebraico, credo che Israele sia fondamentale per ogni identità ebraica e lo sento come mia seconda patria. Eppure oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’esercito israeliano è più forte di qualunque altro esercito del Medio Oriente. E sì, la capacità economica di Israele è nota in tutto il mondo: in Cina, in India e nella Silicon Valley sono celebrate la tecnologia, l’innovazione e l’intraprendenza israeliane.

Ma lo Stato ebraico democratico affronta due gravi minacce che credo potrebbero mettere in pericolo la sua stessa esistenza.

La prima è la possibile fine della soluzione dei due Stati. Sono un conservatore ed un repubblicano ed ho appoggiato il partito Likud fin dagli anni ’80. Ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano ed il mar Mediterraneo. E circa la metà di esse sono palestinesi.

Se l’attuale tendenza continua, Israele dovrà affrontare una scelta drastica: concedere ai palestinesi pieni diritti e smettere di essere uno Stato ebraico o abrogare i loro diritti e smettere di essere una democrazia.

Per evitare questi risultati inaccettabili, l’unico cammino è la soluzione dei due Stati. Il presidente Trump e i suoi consiglieri sono assolutamente impegnati per una pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi, come Egitto, Giordania, Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti sono ora più vicini ad Israele di quanto non lo siano mai stati, e, contrariamente a informazioni dei media, importanti dirigenti palestinesi sono pronti, mi hanno personalmente detto, a iniziare immediatamente negoziati diretti.

Ma alcuni israeliani e palestinesi stanno propugnando iniziative che minacciano di far fallire questa opportunità.

Gli incitamenti [alla violenza] e l’intransigenza dei palestinesi sono distruttivi. Ma lo sono anche i progetti di annessione, sostenuti dalla destra [israeliana] e la diffusa costruzione di colonie ebraiche oltre la linea di separazione [precedente alla guerra del 1967, ndt.]. Negli ultimi anni le colonie in Cisgiordania su terre che molto probabilmente in qualunque accordo di pace saranno parte dello Stato palestinese hanno continuato a crescere e ad estendersi. Queste ottuse politiche israeliane stanno creando una situazione irreversibile di Stato unico.

La seconda duplice minaccia è la capitolazione di Israele agli estremisti religiosi e la crescente disaffezione della diaspora ebraica. Molti ebrei fuori da Israele non sono accettabili agli occhi degli ultra-ortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi nello Stato. Sette degli otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa ed Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o sono laici. Molti di loro hanno cominciato a sentire, soprattutto negli ultimi anni, che la Nazione che hanno appoggiato politicamente, finanziariamente e spiritualmente gli sta voltando le spalle.

Sottomettendosi alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando una vasta parte del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata tra la generazione più giovane, che è prevalentemente laica. Un crescente numero di millenials ebrei – soprattutto negli Stati Uniti – si sta allontanando da Israele perché le sue politiche contraddicono i loro valori. I risultati sono prevedibili: assimilazione, disaffezione e una grave erosione dell’identificazione della comunità ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho visitato comunità ebraiche in oltre 40 Paesi. Membri di ognuna di esse mi hanno manifestato la propria preoccupazione e inquietudine sul futuro di Israele e sui suoi rapporti con la diaspora ebraica.

Molti ebrei non ortodossi, compreso il sottoscritto, sentono che in Israele l’espansione di una religiosità promossa dallo Stato sta trasformando una nazione moderna e liberale in una semi-teocrazia. Una grande maggioranza di ebrei in tutto il mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, leggi restrittive sulla conversione o il bando alla preghiera paritaria al Muro del Pianto. Sono disorientati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e stia assumendo sempre più un carattere che non corrisponde ai suoi valori fondamentali o allo spirito del XXI° secolo.

I dirigenti del mondo ebraico hanno sempre rispettato le scelte fatte dai votanti israeliani ed agito di concerto con il governo democraticamente eletto in Israele. Sono anche ben consapevole che gli israeliani sono sulla linea del fronte, facendo sacrifici e rischiando le loro stesse vite ogni giorno in modo che il mondo ebraico sopravviva e prosperi. Sarò sempre in debito con loro.

Ma a volte la lealtà richiede un amico che parli a voce alta ed esponga una verità scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione dello Stato unico e il crescente divario tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che mi è tanto caro.

Siamo ad un bivio. Le scelte che Israele farà nei prossimi anni saranno determinanti per il destino del nostro solo e unico Stato ebraico – e per la costante unità del nostro amato popolo.

Dobbiamo cambiare rotta. Dobbiamo spingere per una soluzione dei due Stati e trovare un terreno comune tra noi in modo che possiamo garantire il successo della nostra amata nazione.

Ronald S. Lauder è il presidente del Congresso Mondiale Ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)

martedì 27 marzo 2018

La nuova Campagna di Russia


di Manlio Dinucci

27 Marzo 2018 

il manifesto, 27 marzo 2018

«Putin userà il Mondiale di calcio come Hitler usò l’Olimpiade del 1936, cioè per dissimulare il brutale, corrotto regime di cui è responsabile»: questa dichiarazione ufficiale del ministro degli esteri britannico Boris Johnson dimostra a quale livello sia giunta la campagna propagandistica contro la Russia.

In una vignetta sul giornale britannico The Guardian, ricalcata da un manifesto nazista degli anni Quaranta, la Russia viene rappresentata come un gigantesco ragno, con la testa di Putin, che ghermisce il mondo.


È la Russia accusata di aver avvelenato in Inghilterra un suo ex ufficiale, arrestato per spionaggio 12 anni fa e rilasciato 8 anni fa (quindi non più in possesso di informazioni sensibili), usando per avvelenare lui e sua figlia l’agente nervino Novichok di produzione sovietica (così da lasciare volutamente l’impronta di Mosca sul luogo del delitto).

La Russia accusata di penetrare con eccezionale abilità nelle reti informatiche, manipolando perfino le elezioni presidenziali negli Stati uniti («un atto di guerra» lo ha definito John Bolton, nuovo consigliere per la sicurezza nazionale).

Accusata ora ufficialmente dal Dipartimento Usa per la sicurezza della patria e dall’Fbi di prepararsi a sabotare con i suoi hacker le centrali elettriche comprese quelle nucleari, gli impianti idrici e gli aeroporti negli Stati uniti e in Europa, così da paralizzare interi paesi.

Si fabbrica in tal modo l’immagine di un nemico sempre più aggressivo, da cui occorre difendersi. In una conferenza stampa con Johnson, il segretario generale della Nato Stoltenberg accusa la Russia del «primo uso di un agente nervino sul territorio dell’Alleanza», ossia di un vero e proprio atto di guerra; di «minare le nostre istituzioni democratiche», ossia di condurre una azione sovversiva all’interno delle democrazie occidentali; di «violare l’integrità territoriale dell’Ucraina», ossia di aver iniziato l’invasione dell’Europa.

Di fronte al «comportamento irresponsabile della Russia», annuncia Stoltenberg, «la Nato sta rispondendo». Si prepara in tal modo l’opinione pubblica a un ulteriore rafforzamento della macchina bellica dell’Alleanza sotto comando Usa, compreso lo schieramento delle nuove bombe nucleari B61-12 e probabilmente anche di nuovi missili nucleari statunitensi in Europa.

Obiettivo prioritario della Strategia di difesa nazionale degli Stati uniti, annuncia il Pentagono, è «migliorare la prontezza e letalità delle forze Usa in Europa». A tal fine vengono stanziati 6,5 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2019, portando a 16,5 miliardi il totale del quinquennio 2015-2019.

Tale stanziamento costituisce solo una parte di quello complessivo dell’operazione Atlantic Resolve, lanciata nel 2014 per «dimostrare l’impegno Usa per la sicurezza degli alleati europei». Impegno dimostrato dal continuo trasferimento di forze terrestri, aeree e navali dagli Stati uniti nell’Europa orientale, dove sono affiancate da quelle dei maggiori alleati europei, Italia compresa.

Viene allo stesso tempo potenziata la Nato con un nuovo Comando congiunto per l’Atlantico, inventando lo scenario di sottomarini russi pronti ad affondare i mercantili sulle rotte transatlantiche, e con un nuovo Comando logistico, inventando lo scenario di una Nato costretta a spostare rapidamente le sue forze ad est per fronteggiare una aggressione russa.

Si cerca così di giustificare l’escalation Usa/Nato contro la Russia, sottovalutando la sua capacità di reagire quando viene messa alle corde. Johnson, che paragona Putin a Hitler, dovrebbe ricordarsi che fine fecero le armate di Hitler quando invasero la Russia

sabato 24 marzo 2018

LE SPIE SI PENTONO DI DELITTI E BUGIE


di Livio Zanotti


Cosa dicono, arrivati alla vecchiaia, quegli accaniti guerrieri della notte che hanno combattuto con diabolici intrighi, menzogne e violenze sanguinose per affermare le proprie verità assunte come dogmi: mors tua vita mea…? Hanno rischiato la vita, violato quella dei nemici e spinti dal principio che il fine giustifica i mezzi, talvolta anche la fiducia dei compagni, ucciso e spinto a uccidere. Il tramonto della loro avventura personale coincide con quello di un’epoca, quel XX secolo che taluni storici definiscono “breve” e altri -al contrario- “lungo”, per il suo protrarsi nel successivo, che stiamo appunto vivendo. Esistenze intere spese per ragioni di stato non sempre condivise, spesso camuffate o del tutto occulte ai loro stessi occhi: quanto valgono una volta giunte sulla soglia della fine, hanno avuto davvero un senso?
Legacy of spiesMolte verità storiche e qualche fantasia narrativa, informazioni riservate e riflessioni filosofiche sono ormai da tempo lo sfondo incrociato di romanzi, film e serie TV, che finiscono così per scorrere ai bordi della realtà e rivelarne indirettamente pieghe spesso scabrose, talvolta terribili, che stupiscono le platee e al medesimo tempo le assuefanno al peggio. Sono più d’uno gli ex agenti segreti che in un modo o nell’altro raccontano dall’interno gli inganni dello spionaggio internazionale. In un mondo che ha superato la guerra fredda ma non la sua logica strategica, per impantanarsi in tensioni sempre sul punto di esplodere e conflitti che sommano migliaia e migliaia di morti. Si tratta di confessioni a metà, che tuttavia diventano esemplari quando ne sono autori personaggi che per la notorietà o per la rilevanza del ruolo svolto diventano simbolici.

John Le Carré


A 86 anni, John Le Carré (David Moore Cornwell), una doppia identità: celebre scrittore e agente segreto di Sua Maestà britannica (Military Intelligence Section 6: MI6), pubblica “Il Testamento delle spie”, un addio alle spy-stories con cui per decenni ha raccontato come anche quei combattenti sconosciuti della guerra fredda avessero un’anima, sentimenti profondi. Con ansia s’interrogassero a chi o cosa dovessero riservare la loro estrema lealtà, posta continuamente alla prova, e soffrivano oltre a far soffrire. Lo spericolato mestiere, al quale ciascuno di essi -non importa da quale parte stessero-, è arrivato per circostanze e inclinazioni diverse, ha reso particolarmente difficili le vite private di tutti loro, amori, disamori, rapporti con i rispettivi affetti, con i figli specialmente, per chi ne ha avuti. Ne è valsa la pena, è andata come credevano?
Giunta l’ora della verità, il personaggio più emblematico dello scrittore inglese, George Smiley, responsabile delle covert operations, dice all’interlocutore, suo agente fidatissimo: ”Ho l’impressione che tu mi voglia accusare di qualcosa, per ciò che abbiamo fatto, per le ragioni che dicevamo di avere? (…) L’abbiamo fatto in nome del capitalismo? Spero di no. O -Dio non voglia- per il cristianesimo? Tutto per l’Inghilterra? In un certo momento, si. Però quale Inghilterra, l’Inghilterra di chi? L’Inghilterra solitaria, perduta chissà dove? Io mi sento europeo. Ben oltre la disputa con il nemico (sovietico n.d.r.), se mi sono sentito qualcosa mi sono sentito europeo. Se ho avuto un ideale è stato restituire all’Europa una nuova età della ragione e quest’ideale lo sento ancora”. Dunque uno Smiley-Le Carré che rifiuta la Brexit per invocare un’Europa europeista e umanitaria, capace di un nuovo illuminismo; tutt’altro che l’obiettivo unico d’un crudo pareggio di bilancio delle sue economie nazionali.

Mappa di Berlino divisa

Non molto diversi sono i toni di delusione che ho ascoltato nelle parole dell’ebreo tedesco Markus Wolf, sempiterno nemico dell’Intelligence britannica (e della CIA americana), tirato fuori in carne ed ossa dalla viva realtà della guerra fredda e trasportato sulle pagine del più fortunato dei romanzi di Le Carré, “La Talpa”. Wolf ha diretto per 35 anni il servizio di spionaggio all’estero della Repubblica Democratica Tedesca (DDR); e per tutto questo tempo, dall’oscurità dei suoi rifugi a Berlino Est ha giocato con l’MI6 un’ininterrotta partita a scacchi in cui torri, pedoni, re, regine e alfieri erano uomini e donne addestrati ad ottenere in ogni modo il massimo delle informazioni sul nemico. Non escluse quelle sulle sue questioni private, in quanto potevano costituire un varco per meglio colpirlo. E a Le Carré, che in qualche misura vi ha avuto accesso, hanno permesso di rendere tanto verosimili i suoi personaggi.

il “Glienicke brucke”, fino al 1989 confine tra le due Germanie, detto “Ponte delle spie” 


Soltanto verso la fine degli anni Settanta lo spionaggio britannico ha ottenuto dati rilevanti sulla vera identità di Markus Wolf, ma da tempo intuiva che chiunque egli fosse, era in forte dissidio politico con il suo superiore diretto, il generale Erich Mielke, lo spietato generale stalinista che dirigeva la STASI, la metastasi poliziesca della Germania Est. E ne ricavava l’ipotesi che se conservava il posto lo doveva alla fiducia dei sovietici. Come in effetti era. Figlio di uno scrittore comunista rifugiatosi con la famiglia in Unione Sovietica all’avvento al potere di Hitler, aveva studiato a Mosca e al momento dell’invasione nazista ricevuto addestramento militare nell’Armata Rossa. Nei cruciali anni Ottanta fu protetto da Yurij Andropov, che prima di comandare il KGB e poi -brevemente- l’Unione Sovietica, aveva studiato sociologia e guidava la corrente riformista alternativa all’immobilismo di Breznev e dei suoi.
Da sinistra: Livio Zanotti, Andrea Wolf, Alicia Zanotti, Markus Wolf


Ho conosciuto Markus Wolf poco dopo l’abbattimento del Muro e poi l’ho incontrato più volte: a Berlino, dove allora risiedevo come corrispondente della RAI-TV, e a Roma, quando successivamente è venuto a visitarci con la moglie, Andrea, che aveva stabilito un rapporto cordiale con la mia, Alicia. Era una persona molto orgogliosa, oltre che colta e di temperamento risoluto: però crollato il blocco sovietico, scomparsa la DDR con la riunificazione tedesca, a volte appariva perplesso se non smarrito. Le vecchie certezze del marxismo positivista incrinate da un certo fatalismo. Se ne coglieva qualche segno anche nei suoi libri, memorie personali e familiari, ricettari di cucina come metafora politica. “Si -ammise in un’occasione- finalmente ne posso parlare, quella di scrivere è stata una libera scelta…”. Sinceramente sorpreso, gli domandai se fino ad allora fosse stato invece costretto, e da chi. “Ma che domande, come da chi… Ma dalla vita!”, rispose di getto.

Kim Philby, il leader intellettuale del brillante gruppo di studenti di Cambridge anni ‘50 divenuti comunisti, poi doppi agenti dell’MI6 e del KGB

E prese a spiegare: “Attenzione, non sono un pentito… Ma se una volta passati in Svizzera, come tanti altri ebrei tedeschi fossimo andati in America, la mia vita, quella di tutta la nostra famiglia, sarebbe stata con ogni probabilità diversa. Così come per le scelte successive: tutte! Ma l’URSS era la trincea principale della battaglia anti-fascista, noi eravamo comunisti e siamo andati a combattere da quella trincea, la scelta era fatta. E’ venuta la guerra mondiale, potevamo avere dubbi sulla parte con cui stare? Poi tutto è risultato diverso, sempre più diverso da come l’avevamo immaginato. E c’è voluto tempo per frugare fino in fondo nelle nostre coscienze, capire e smettere di concedere proroghe ai nostri giudizi sulla realtà che avevamo davanti, quelle della DDR, dell’URSS; poichè neppure ci convinceva l’altra che intravvedevamo oltre frontiera, in Occidente…”. L’uomo è un mistero che non cessa di affascinare, commenterebbe Feodor Dostoevskij.

giovedì 22 marzo 2018

SETTE ANNI DI GUERRA CONTRO LA LIBIA


di Manlio Dinucci

il manifesto, 20 marzo 2018

Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili. 

A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi. 

Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane. 

Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava «alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani. 

Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento. 

Usa e Francia – provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton – si accordarono per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane. 

Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, il bottino da spartire in Libia è enorme: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, «congelati» nel 2011 su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. 

Dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio, ne sono già spariti 10 senza alcuna autorizzazione di prelievo. La stessa grande rapina avviene nelle altre banche europee e statunitensi.

In Libia gli introiti dell’export energetico, scesi da 47 miliardi di dollari nel 2010 a 14 nel 2017, vengono oggi spartiti tra gruppi di potere e multinazionali; il dinaro, che prima valeva 3 dollari, viene oggi scambiato a un tasso di 9 dinari per dollaro, mentre i beni di consumo devono essere importati pagandoli in dollari, con una conseguente inflazione annua del 30%. 

Il livello di vita della maggioranza della popolazione è crollato, per mancanza di denaro e servizi essenziali. Non esiste più sicurezza né un reale sistema giudiziario. 

La condizione peggiore è quella degli immigrati africani: con la falsa accusa (alimentata dai media occidentali) di essere «mercenari di Gheddafi», sono stati imprigionati dalle milizie islamiche perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati. 

La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011. 

Perseguitati sono anche i libici accusati di aver sostenuto Gheddafi. Nella città di Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, sterminando, torturando e violentando. I superstiti, terrorizzati, hanno dovuto abbandonare la città. Oggi circa 40.000 vivono in condizioni disumane non potendo ritornare a Tawergha. 

Perché tacciono quegli esponenti della sinistra che sette anni fa chiedevano a gran voce l’intervento italiano in Libia in nome dei diritti umani violati?

AHED TAMIMI PATTEGGIA LA CONDANNA A 8 MESI DI CARCERE




La minorenne Ahed Tamimi è stata condannata a otto mesi di carcere da un tribunale militare per aver schiaffeggiato un soldato israeliano nella Cisgiordania illegalmente occupata. Cosa c'era in quell'atto? Lascio parlare il poeta israeliano Yonatan Geffen:

“In quello schiaffo c'erano 50 anni di occupazione e umiliazione. Come Davide che schiaffeggiò Golia, sei nella stessa schiera di Giovanna d'Arco, di Hannah Senesh e di Anna Frank”.


Foto: The Telegraph


Come risposta il Ministro della Difesa dello stato criminale di Israele, Avigdor Liberman, ha dato ordine di bandire Yonatan Geffen dalla Radio dell'Esercito (Geffen, settantenne, è anche un noto cantautore).

L'artista irlandese Jim Fitzpatrick, famoso per aver creato l'iconico poster di Che Guevara, ha affermato che Ahed "is a real Wonder Woman" e ha creato questo poster, copyright-free:

mercoledì 21 marzo 2018

I media USA su Israele: la libertà di stampa che non c’è mai stata


di Belen Fernandez


Martedì 2 maggio 2017 Middle East Eye


L’America è il bastione della libertà di stampa? Nel “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”, questo concetto crolla quando si tratta di Israele.

Mercoledì 3 maggio segna il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo”.

Qualcuno vedrà sicuramente la ricorrenza come uno scherzo, dato che l’attuale capo del cosiddetto “mondo libero” è un presidente degli USA impegnato a fare la guerra ai media.

Ma, benché possa sembrare che Donald Trump costituisca un allontanamento dalla normalità in una Nazione che si è così accuratamente presentata come un bastione della libertà di stampa, di pensiero, di espressione e di tutte quelle belle cose, i media USA non sono mai stati propriamente liberi.

In fondo, oltre a svolgere regolarmente un ruolo da ragazze pon pon a favore delle conquiste militari e imprenditoriali, i mezzi di informazione americani hanno anche rispettato una persistente linea rossa: criticare Israele, l’adorabile democrazia-che-non-lo-è del Medio Oriente.

Prendiamo in considerazione un aneddoto raccontato da Thomas Friedman, del “New York Times”, egli stesso un convinto sionista, a cui tuttavia è capitato di parlare di bombardamenti israeliani “indiscriminati” su Beirut ovest in un articolo del 1982 – quando l’invasione israeliana del Libano uccise circa 20.000 libanesi e palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili.

Come racconta lo stesso Friedman, la sua redazione eliminò il termine “indiscriminati”, dopodiché egli scrisse una nota accusandola di vigliaccheria. A.M. Rosenthal, ex-direttore esecutivo del “Times”, allora “esplose contro l’insubordinazione (di Friedman)” e lo convocò in termini minacciosi ad un incontro, che finì per essere un “pranzo lungo ed emotivo, con lacrime da entrambe le parti” e un aumento di stipendio di 5.000 dollari per Friedman.

Il pranzo culminò con un “caldo abbraccio” di Rosenthal e l’avvertenza: “Ora ascoltami, tu, piccolo astuto: non rifarlo mai più.”

Lezione imparata. Alla faccia dei 20.000 morti.

“Non è mai stato pubblicato”

Per inciso, il 1982 ha rappresentato un raro picco nella libertà di stampa riguardo ad Israele – si potrebbe dire una momentanea mini-glasnost.

In un recente messaggio mail, l’ex capo corrispondente per il Medio oriente di “ABC News” [rete televisiva statunitense, ndtr.] Charles Glass mi ha spiegato che “non ci fu nessun inviato americano che sia stato in Libano negli anni ’70 e ’80 che non abbia dovuto lottare con i suoi editori e direttori negli USA ”sui reportage a proposito del comportamento di Israele nella regione.

“Una finestra (di informazione critica) fu aperta subito dopo Sabra e Shatila nel settembre 1982 – i tre giorni di massacri appoggiati da Israele di alcune migliaia di rifugiati palestinesi a Beirut – ma si richiuse subito dopo.”

Un esempio emblematico: nel 1984, Glass inviò un reportage per “ABC News” sugli squadroni della morte israeliani nel sud del Libano – un argomento senza dubbio degno di nota, in particolare alla luce dei considerevoli flussi finanziari USA verso Israele.

“Quell’articolo non è mai stato pubblicato, anche se nessuno mi ha detto perché,” ricorda Glass. “L’articolo era attendibile, (con) molti testimoni oculari, anche dell’ONU, e con prove scientifiche.”

Dopo essere stato continuamente rimandato da un editore a New York con la scusa di notizie più urgenti, il reportage venne alla fine scartato del tutto perché “non più attuale”.

Nel frattempo, l’effimera mini-glasnost del 1982 aveva prodotto negli USA una massa di censure ancora più aggressive. Il sito web del “Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America” [Comitato per l’Accuratezza nell’informazione sul Medio Oriente in America] (CAMERA), un gruppo islamofobo fondato quell’anno a Washington, sottolineò di essere nato in risposta “a come il “Washington Post” aveva informato dell’incursione israeliana in Libano e alla complessiva parzialità anti israeliana del giornale.”

Naturalmente, questa è gente che – se ci si impegnasse — riuscirebbe a trovare “pregiudizi contro Israele” persino in Benjamin Netanyahu.

Asserviti alla propaganda

Attualmente un esame accurato del sito web “CAMERA” fornisce una valanga di prevedibili titoli come “CAMERA induce la redazione del ‘New York Times’ a una correzione”, “CAMERA suggerisce alla NPR [radio pubblica nazionale USA, ndtr.] una rettifica sulla richiesta di annessione”, “La versione di Vogue per giovani promuove la narrazione palestinese per i lettori adolescenti”, “CAMERA suggerisce al ‘Washington Post’ una correzione su ‘Gaza occupata’”, “ Il “Christian Science Monitor [quotidiano statunitense con una rubrica religiosa quotidiana, ndtr.] mente in merito ad Israele”, e così di seguito.

E CAMERA, vale la pena ripeterlo, è solo uno del miscuglio di organizzazioni ed individui che spendono denaro ed influenza in giro per associare la minima critica delle atrocità israeliane con l’antisemitismo e per impedire comunque una discussione ragionata.

Ricordiamo una delle principali atrocità attuali: l’assassinio nel 2014 da parte di un raid aereo israeliano di quattro giovani palestinesi che giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza – una controprova dell’attacco di 50 giorni da parte di Israele che alla fine ha eliminato 2.251 vite palestinesi, 551 delle quali di bambini.

Il relativo titolo del “New York Times” ha affermato: “Ragazzi ritratti sulla spiaggia a Gaza e nel centro del conflitto mediorientale”. E’ più o meno l’equivalente di “Uomo va a sbattere contro una pallottola, e con le sue domande esistenziali,” oppure “Maiale si materializza sotto il coltello del macellaio, sollevando problemi epocali sulla gerarchia nella catena alimentare.”

Lo concediamo, il titolo del “Times” avrebbe potuto essere anche peggiore se il giornale avesse ripreso più letteralmente le tradizioni del portavoce israeliano – ad esempio: “Maiale lancia efferato attacco contro coltello da macellaio e viene ucciso per auto-difesa.”

Durante una comparsa su “Democracy Now!” [programma statunitense di notizie in tv, radio e internet di un’ora e di orientamento progressista, ndtr.] nel bel mezzo della guerra del 2014, Noam Chomsky ha criticato duramente i media americani per la loro diligente riproduzione della linea israeliana: “Non abbiamo bisogno di ascoltare la CBS, perché possiamo ascoltare direttamente le agenzie di propaganda israeliane…è un momento vergognoso per i media USA, dato che continuano ad essere asserviti ai grotteschi servizi della propaganda di uno Stato violento e aggressivo.”

Questa vergogna naturalmente riguarda anche l’establishment governativo degli USA , che ha accuratamente coltivato la propria predilezione per la grottesca violenza e che trova una notevole quantità di vantaggi politici ed economici nelle politiche israeliane di saccheggio omicida.

E il “Giorno della Libertà di Stampa nel Mondo” è il momento più adeguato per riflettere su ciò.

Belen Fernandez è l’autrice de “Il messaggero imperiale: Thomas Friedman al lavoro”, edito da Verso. E’ autrice e scrittrice della rivista “Jacobin” [quadrimestrale statunitense di sinistra, ndtr.]

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi]

lunedì 19 marzo 2018

Chi c’è dietro il tentativo di assassinare il primo ministro palestinese?


di Amira Hass

14 marzo 2018, Haaretz

È facile incolpare Hamas dell’attacco avvenuto a Gaza, ma ci sono sospetti molto più probabili.

Hamas non ha e non potrebbe avere alcun interesse nell’attaccare importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese mentre andavano ad inaugurare un impianto di trattamento delle acque reflue che gli abitanti della Striscia di Gaza attendevano da molto tempo.

Hamas non ha neppure interesse a far finta di niente e a lasciare che qualcun altro attacchi i visitatori [arrivati] da Ramallah. Hamas si vuole dipingere come una potenza forte che governa e che desidera cedere la propria parte di potere perché preoccupata per il popolo, e non a causa dei propri fallimenti. Il fatto che non sia riuscita a impedire questo attacco indebolirà la sua posizione nei colloqui con Egitto e Fatah, la fazione dominante nell’ANP.

Data la continua e prevedibile situazione di stallo del dialogo per la riconciliazione tra Hamas e Fatah, questo è un compromesso che conviene ad Hamas: controlla di fatto Gaza, ma gli Stati donatori che lo boicottano continuano a costruire, attraverso l’ANP, le infrastrutture vitali ed urgentemente necessarie. Il successo di questi progetti infrastrutturali mitiga il disastro ambientale ed umanitario provocato dall’assedio israeliano. Probabilmente ridurranno le enormi sofferenze della popolazione, anche se solo un poco, e di conseguenza neutralizzeranno anche una delle principali ragioni della rivolta sociale contro Hamas.

Nel 2007 cinque persone annegarono nelle acque reflue che fuoriuscirono dalla vasca del vecchio ed inadeguato impianto di trattamento di Beit Lahia. Per anni acque fognarie non trattate si sono riversate in mare e sono penetrate nell’acquifero, con tutte le implicazioni note ed ignote che ciò comporta.

L’attuale impianto, il cui costo di 75 milioni di dollari è stato coperto da Svezia, Belgio, Francia, Commissione Europea e Banca Mondiale, dovrebbe servire circa 400.000 persone. Il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia) e il dipartimento di Stato USA hanno tenuto i contatti con le autorità israeliane in modo che consentissero l’ingresso a Gaza dei materiali da costruzione e degli esperti necessari. Senza la loro assistenza probabilmente la costruzione sarebbe durata molti più anni.

Secondo il comunicato stampa della Banca Mondiale, Israele e l’ANP hanno raggiunto un accordo temporaneo per la fornitura dell’energia elettrica necessaria per far funzionare l’impianto, senza la quale sarebbe stato una cattedrale nel deserto. Israele ha già accettato di attivare un’altra linea elettrica. Ma l’ANP ed Hamas devono ancora raggiungere un accordo su come pagare questa elettricità aggiuntiva.

La disputa sul finanziamento di servizi come l’elettricità per gli abitanti di Gaza è descritta come il principale ostacolo al progresso dei tentativi di riconciliazione tra Fatah ed Hamas. Ma queste discussioni di natura finanziaria – che avvengono nel momento in cui la popolazione di Gaza è sprofondata in una povertà e in una disperazione senza precedenti – sono semplicemente una copertura dell’inimicizia e della mancanza di fiducia tra i due principali movimenti palestinesi.

L’ANP sostiene di spendere una parte significativa del suo bilancio a Gaza, mentre Hamas non condivide le proprie entrate con L’ANP. Ma i gazawi affermano che una parte significativa di queste spese è coperta dai diritti di dogana che l’ANP riscuote sulle merci importate a Gaza via Israele.

Hamas chiede che l’ANP paghi i salari di circa 20.000 dipendenti pubblici che Hamas ha assunto durante i suoi anni al potere. Ramallah chiede che prima gli venga dato il controllo totale di ogni attività governativa a Gaza, compresa la riscossione delle tasse e dei versamenti.

Hamas continua a riscuotere imposte al consumo non ufficiali per finanziare la propria amministrazione nel territorio (le sue attività militari sono finanziate soprattutto con denaro dall’estero).

Hamas sta cercando di incrementare la quantità e varietà di beni importati attraverso l’Egitto, da cui ricava tasse. Gli abitanti di Gaza dicono che l’ANP ha fatto tutto quanto in suo potere per evitare che i prodotti arrivassero attraverso l’Egitto, proprio perché questi forniscono entrate ad Hamas. I gazawi sostengono anche che il governo del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha preparato ulteriori “misure punitive” contro Gaza – come il taglio del bilancio municipale e ulteriori tagli ai salari che Abbas eroga ai “suoi” lavoratori del pubblico impiego, che sono stati pagati per non lavorare fin da quando nel 2007 Hamas ha preso il potere a Gaza.

Che sia vero o no, quello che importa è che i gazawi accusano Abbas e Fatah di cercare di sottometterli economicamente in modo che Hamas rinunci alle proprie richieste di condivisione nell’assunzione di decisioni politiche e nelle istituzioni dell’OLP.

La richiesta di Abbas di “un solo governo, una sola forza armata” è logica e naturale, e tale è anche il suo timore che Hamas voglia rinunciare alle responsabilità sulle questioni civili e poi raccogliere un vantaggio politico, soprattutto tra i palestinesi della diaspora, dalla sua reputazione come “movimento di resistenza”. Ma al contempo Abbas non consente [che si tengano] nuove elezioni (in Cisgiordania e a Gaza), ha bloccato da 12 anni il Consiglio Legislativo Palestinese e controlla il sistema giudiziario.

A fine aprile il Consiglio Nazionale Palestinese, il parlamento dell’OLP, si dovrebbe riunire a Ramallah. I suoi parlamentari includono tutti i membri di Hamas eletti al consiglio legislativo nel 2006. Il solo fatto che si riunisca a Ramallah piuttosto che in un posto come Il Cairo o Amman è una chiara prova che Abbas e Fatah non sono interessati alla partecipazione di delegati di Hamas e di altri gruppi di opposizione, a cui Israele non vuol concedere di uscire da Gaza o di entrare in Cisgiordania.

In questa situazione persino le ragionevoli richieste politiche di Abbas ad Hamas sono viste come passi per consolidare il suo potere autoritario e conservare il controllo di Fatah sull’OLP e sull’ANP.

Prima di arrivare alla conclusione che Mohammed Dahlan, il rivale di Abbas, o gruppi salafiti siano dietro l’attacco di martedì contro il convoglio del primo ministro palestinese Rami Hamdallah, è altrettanto possibile immaginare un altro scenario, in cui i responsabili siano stati alcuni giovani, senza un progetto politico ma con accesso ad esplosivi, influenzati dalla descrizione di Fatah e dell’ANP come collaborazionisti che hanno abbandonato Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)